Pubblichiamo la seconda e ultima parte dell'articolo uscito sul sito 11freunde.de, qui la prima parte.
“Amici della nazione che danno lustro allo Stato”
Non abbiamo notizia di un ordine generale della direzione della DFB di escludere tutti i membri ebrei dai club. Tuttavia, c'erano iniziative regionali. Nel maggio 1933, i giocatori di calcio ebrei furono esclusi dalla lega calcistica della Germania occidentale. Lì il nuovo leader, l'SS Josef Klein, annunciò che da allora in poi “solo le persone di discendenza tedesca” avrebbero potuto prendere parte alle partite di campionato dell'associazione. Il presidente della DFB Felix Linnemann chiarì nel febbraio 1934 cosa si aspettava dai suoi club su questo tema. In un post per il “Giornale sportivo del Reich”, lo definì uno dei compiti più importanti dell’associazione, “addestrare i suoi membri a diventare persone impegnate e convinte sostenitrici dello Stato nazionalsocialista”.
Fino al 1933, gli ebrei erano parte integrante del calcio tedesco. Dopo la loro espulsione e l'Olocausto, ciò fu quasi completamente dimenticato. Una cultura del ricordo è emersa solo negli ultimi anni.
Quando il calcio arrivò in Germania alla fine del XIX secolo, il gioco inglese era considerato in maniera sprezzante da molti cittadini con definizioni tipo "ciondolamento di piedi" o "malattia inglese", quindi non venne accolto positivamente. Le vecchie élite erano critiche perché il nuovo sport era cosmopolita, tollerante e orientato a livello internazionale. A differenza della ginnastica, che aveva dominato fino ad allora, che allevava i giovani con esercitazioni militari e in uno spirito strettamente nazionale tedesco, offrendo opportunità individuali di movimento e sviluppo.
Che il re fosse nudo era chiaro già da tempo, così come appariva ugualmente chiaro che l’architettura neoliberista avrebbe cominciato a scricchiolare pericolosamente; non in Europa, dove un mix di repressione tecnologica e solide reti clientelari, pur con fatica, riescono a garantire la tenuta dello status-quo (chissà ancora per quanto…), ma laddove era convinta di giocare in casa, o meglio nel proprio “giardino di casa”. Quel Sud America ancora capace di mobilitarsi e reagire colpo su colpo a ogni suggestione golpista delle classi dominanti e delle élite neoliberiste, proprio quando erano convinte di aver pacificato il continente tra un Guaidó di qua e un Bolsonaro di là.
In occasione dell’uscita di “Federico Ovunque” (https://bit.ly/2CpSxHr), scritto da Daniele Vecchi per Hellnation Libri, pubblichiamo in anteprima la prefazione al volume, scritta dal papà di Aldro. A Lino, così come a tutti i familiari e agli amici di Federico, va la nostra solidarietà incondizionata e tutto il nostro affetto, insieme all’ammirazione per l’ininterrotta battaglia condotta nel nome della memoria, della giustizia e della libertà. Federico vive!
Anche quest’anno qualcuno mi avrebbe chiesto: «Cos’ha fatto la Spal?».
Sorrido nel pensare che quel qualcuno, ogni domenica nell’anno trascorso, è stato lì a guardarci accarezzato dal vento, grazie a chi ha pensato di adottarlo come amico, come fratello, per non far vincere la morte; e per non far vincere chi, di quella morte orribile, resterà per sempre il responsabile.
Meravigliosa e commovente l’idea di quella bandiera dei ragazzi della Curva Ovest che nonostante tutto, alla faccia di un mondo malato di troppe cose, ha restituito a quel ragazzo, mio figlio, il calore e l’affetto di tanti cuori, quasi come a cercare di sconfiggere quel freddo bestiale, inenarrabile, che Federico incontrò una fredda e maledetta mattina di quindici anni fa.