Arriva in un circuito selezionato di librerie il primo numero di una rivista-libro che si candida al ruolo di oggetto di culto per chi ama riflettere sul calcio e su ciò che si agita dentro e fuori il pianeta del pallone. Disponibile on-line all’indirizzo www.uno-due.it, abbiamo recuperato il bel volume presso il nostro pusher di fiducia: Hellnation, il negozio romano di Roberto Gagliardi. E questa è la nostra recensione.
«Dalle pesanti critiche subite dalla FIFA, al fracasso della Spagna, dell’Italia e dell’Inghilterra, dalla partecipazione corale dei media di tutto il mondo, fino alla consacrazione del soccer negli Stati Uniti, Brasil 2014 è stato indubbiamente uno dei mondiali più rivoluzionari di sempre. A un anno dalla sua fine, il mondo del calcio si trova ancora a processare le nuove dinamiche e i nuovi equilibri che si sono creati».
Si presenta così UNO-DUE, la nuova rivista-libro dedicata al mondo del calcio. Come recita la sua testata, sono«120 pagine, più rigori», e quindi ben 176 pagine, tutte a colori per un volume elegantemente cartonato (il prezzo di copertina è di 20 euro per una tiratura di 250 copie) e consacrato a un’idea di sport che non ha nessuna intenzione di considerare la competizione come un fenomeno ripiegato dentro se stesso. Si tratta, al contrario, di una realtà interessante, anzi fondamentale, esattamente per le implicazioni di ordine sociale, economico e politico capace di fare di un gioco ciò che un sociologo d’altri tempi avrebbe definito un«fatto sociale totale».
Il 10 agosto del 1980, sbarca a Roma il “Divino” Paulo Roberto Falcão. La rievocazione di quella giornata è affidata alla penna dello scrittore Alessio Dimartino e al suo “Falcão. L’ottavo re di Roma”, biografia letteraria dedicata al campione brasiliano: uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi ma soprattutto, nel libro di De Martino, pubblicato dalla Perrone nella nuova collana “Fuoriclasse”, occasione per tornare con la storia e con la memoria in un tempo in cui tutto ciò che accadeva intorno a un pallone poteva chiamarsi in tanti modi, tranne che “calcio moderno”.
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Mio padre quel mercoledì decise di portarci al mare da zia Teresa, che aveva una villetta bifamiliare abusiva nell’entroterra di Maccarese. Si prese un giorno di ferie, quel mercoledì, mio padre, perché noi di solito le vacanze le facevamo a luglio e lui i trenta canonici se li spendeva lì. Andavamo a Grottammare, vicino San Benedetto del Tronto. Un posto tranquillo, per famiglie. Pensa, ci vado ancora oggi. Comunque, quella mattina partimmo direzione Maccarese. Mia madre e mia sorella erano elettrizzate per questa scampagnata fuori programma. Mio padre invece era stranamente taciturno. Non che fosse un chiacchierone, ma di solito in contesti vacanzieri si lasciava un po’ andare. Quel giorno no. Concentrato sulla guida, accigliato, muto. Allo svincolo per Maccarese tirò dritto. Mia madre protestò, lui disse che s’era distratto, che saremmo tornati indietro all’altezza di Fiumicino. Avvicinandosi all’aeroporto il traffico s’intensificò parecchio. Le auto mostravano appese ai finestrini svariate bandiere giallorosse. Mia sorella iniziò a frignare, mia madre guardò mio padre con lo sguardo sbieco da ‘non pensare che non abbia capito, maledetto stronzo’. Guidò come un automa, parcheggiando in coda a una moltitudine infinita di macchine a circa un chilometro dagli arrivi internazionali. Finalmente mia madre chiese cosa stesse accadendo. Torniamo subito, rispose mio padre con voce metallica. E poi a me: vieni, andiamo.
MAR DEL PLATA
di CLAUDIO FAVA
regia di GIUSEPPE MARINI
1978, l'Argentina è occupata dai colonnelli di Jorge Videla, che il 24 marzo del 1976 con un golpe militare destituiscono il governo e avviano il processo di Riorganizzazione Nazionale. Questo il contesto storico in cui si muove la narrazione, protagonista la squadra di rugby Club Mar del Plata, che fu decimata ferocemente dalla dittatura fascista. L'omicidio di uno dei giocatori della squadra scatenò la reazione da parte degli altri compagni, che forse in un primo momento non furono realmente consapevoli delle conseguenze mortali a cui andavano incontro, nonostante il loro mister Passarella avesse già chiaro il loro destino di morte. La squadra venne decimata e l'unico sopravvissuto fu Raul Barandiaran, che riuscì a scappare via con la sua compagna Teresa, presente nella pièce.
Una delle novità di questo decennio sulle gradinate di tutta Europa, è sicuramente quella di dover convivere con la spropositata moltitudine di flash generata da telefoni e tablet di ultima generazione, che spesso e volentieri, soprattutto per chi è aprioristicamente nostalgico di un calcio e soprattutto di un tifo che non c'è più, risultano a dir poco fastidiosi e anzi, spesso fungono da generatore di improperi da parte dei fans più accaniti nei confronti di chi piuttosto che tifare insieme agli altri, preferisce guardare e fare riprese. Tuttavia a dispetto di quanto si possa pensare, la "curvologia" non è una scienza esatta con regole e canoni immodificabili e quindi può capitare che, in certi contesti ed in singole situazioni, il messaggio di un gesto possa essere diametralmente opposto. Così, ciò che solitamente sembra quasi un'abdicazione da parte dei tifosi che tra un flash e l'altro accettano implicitamente di essere nient'altro che clienti del sistema calcio che usufruiscono di un prodotto di marketing, può diventare invece un segnale di unità, di forza e coesione di un'intera comunità che proprio nella squadra di calcio cittadina ha una dei propri vettori di solidarietà e appartenenza.
Quanto è avvenuto all'Old Trafford di Manchester, lo scorso ventotto ottobre rientra pienamente in questa seconda categoria. Infatti, per il match valido per gli ottavi di finale di Coppa di Lega tra i Red Devils ed il Middlesbrough, e terminato col successo ai rigori di questi ultimi dopo lo 0-0 nei 90 minuti regolamentari, gli oltre 10.000 sostenitori ospiti (e già qui, se si facesse un paragone con il seguito di una partita simile in Italia, il divario sarebbe impietoso...), intorno al decimo minuto di gioco, hanno illuminato il loro settore con le luci dei cellulari in segno di solidarietà nei confronti dei circa 2.200 operai del settore siderurgico, del Teesside, più specificatamente dello stabilimento SSI di Redcar, che rischiano il posto di lavoro in seguito alle dichiarazioni del manager che paventava la chiusura dello stabilimento per via di grossi problemi finanziari, dopo che il governo di Cameron ha respinto l'ultimo, disperato appello di aiuto lanciato dai vertici della fabbrica.
Quel giorno il campo era un pantano e la palla rotolava appena.
Ero lì che aspettavo il mio turno.
«Sei il prossimo, scaldati», l’inserviente del Genoa incalzava, e dopo gli esercizi entrai nel rettangolo con il cuore pieno di speranze e la corsa nella testa.
Stop di petto, palla a terra, lanci e recuperi, poi con un tiro da fuori area bucai il portiere.
Era andata bene.
Avevo da poco l’età per la patente, un contratto semiprofessionistico con i Grifoni e finalmente il futuro mi sembrava facile.
Mi ripetevo di cercare una cabina, erano i primi anni Ottanta, e i telefonini non esistevano. Dovevo avvertire mio padre, che mi avrebbe voluto con sé a fare il fabbro, e mia madre, secondo cui avrei potuto lavorare in cucina come lei, che i loro programmi sarebbero saltati. Mi aspettava la maglia rossoblù, avrei corso sulla fascia, preso i gialli e i rossi, tirato calci… insomma, sarei stato un calciatore.
Un punto di vista differente sui fatti di stretta attualità sportiva e sociale.
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Donne e uomini diventati per qualche motivo esempio
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