Ci siamo presi qualche ora prima di commentare, vuoi per cercare di assorbire la stanchezza che uno sforzo organizzativo simile ha prodotto sulla nostra redazione, vuoi per cercare di imbastire qualche riflessione a freddo e con la mente lucida. Ebbene, pur avendo la consapevolezza che tutto è sempre migliorabile e che anche in questa edizione c'è stata qualche lacuna da colmare per migliorarci nelle edizioni successive, non possiamo che ritenerci soddisfatti dell'andamento del festival andato oltre le nostre aspettative, sia da un punto di vista quantitativo, vale a dire per il numero delle persone che vi hanno partecipato nello scorso weekend (e nell'evento di avvicinamento della settimana precedente coi compagni del Clapton al “3serrande occupato” all'interno della Sapienza”), ma anche qualitativo, cioè per quello che è stato allestito per il festival, per le connessione stabilite in questi giorni, per l'adesione entusiasta degli ospiti presenti e per gli spunti di riflessione.
Più volte, anche dalle pagine del nostro portale, si è sostenuto come il calcio fosse lo specchio di questa nostra società contemporanea e non inizieremo certo oggi a fare abiura di quello che costituisce uno dei topoi fondanti del nostro progetto editoriale. Tuttavia, a volte ci si ritrova di fronte a degli specchi deformanti, oppure per parafrasare una celebre canzone dei “Senza Sicura” degli specchi che non vedono. Sarebbe difficile spiegare diversamente questa nuova, ennesima, ondata di sdegno dell'opinione pubblica, sportiva e non, che caratterizza quello che è sia il day after che la vigilia di una giornata di campionato... Frutti avvelenati di un calcio moderno, in cui non solo non basta la morte di uno spettatore a interrompere una partita, ma che manda addirittura i suoi corifei a scagliarsi contro chi, in questo a Perugia durante il derby (quindi tutt'altro che una partita qualsiasi per entrambe le piazze), per rispetto della vita umana fa cessare il proprio sostegno sugli spalti e l'agonismo in campo per ben tre minuti (!!!), tanti ne mancavano al novantesimo.
Ci risiamo. Ancora una volta ci ritroviamo a masticare rabbia non solo per un omicidio fascista, ma, come se non bastasse, per la narrazione che fin dai primi istanti fissa i paletti entro cui si dovrà far muovere l'indignazione popolare. O almeno, di quella parte di persone che si indigna invece di brindare.
“Ultrà aggredisce e uccide un richiedente asilo”.
Eccoli. Di nuovo. Il micidiale mix prodotto da un direttore di giornale che sa bene quale gioco deve fare, sommato alla superficialità da servo rampante di un redattore x. Ed è subito verità. Abbiamo i responsabili. Praticamente all'unanimità. Possiamo archiviare rapidamente il caso con un po' di lacrime istituzionali a comando e continuare come se nulla fosse.
Per una serie di eventi e di considerazioni personali, ci eravamo ripromessi di seguire con un certo distacco questi campionati Europei, evitando nel nostro piccolo di foraggiare sia tutto il carrozzone mainstream che si portano dietro i grandi eventi, sia quelle ondate di italico fervore che si levano sempre in occasioni simili. Ovviamente, come vale per tutti i buoni propositi, anche questo è stato disatteso in breve tempo e la nostra attenzione si è riversata sulle notizie e le suggestioni che stanno provenendo dalla Francia. Non soltanto per quella febbre che sale ogni volta che rotola un pallone e c'è in palio un trofeo importante, ma anche e soprattutto per quella che, riutilizzando una definizione che ha trovato molta (troppa) fortuna l'anno scorso in un altro contesto come quello di Milano del Primo Maggio, si è rivelata essere una macabra “pornografia della violenza”. Perché, con buona pace di tutti quei giornalisti che nel 2016 hanno scoperto l'hooliganismo e si stanno stracciando le vesti, quello che è successo a Marsiglia, a Lille a Nizza, non è poi tanto diverso da quello che, ad esempio, successe a Charleroi negli Europei del 2000, oppure a Cagliari durante i mondiali del '90, a dimostrazione che ormai non contano tanto (o almeno non solo) i fatti, ma il modo in cui questi vengono narrati.
Quella di “calcio popolare” non può che essere una definizione vaga e fumosa, almeno allo stato di cose presenti. Del resto si è in una fase nascente, i progetti più vecchi hanno pochi anni, quelli più nuovi stanno nascendo in queste settimane e sperano di affacciarsi al prossimo campionato. Ci sono grandi distanze geografiche e modi diversi di intendere l'autogestione e la lotta politica, e in che misura queste debbano interagire con il percorso della squadra. Noi stessi come sito che si pone l'obiettivo di seguire questo mondo e narrarne il più possibile da vicino le gesta abbiamo un approccio arbitrario, ma ciò è inevitabile, perché sarebbe non solo impossibile ma anche indesiderabile stilare una sorta di decalogo del calcio popolare, stabilendo criteri rigidi per i quali sei “dentro o fuori”. Per fare un esempio lampante, annoveriamo tra le squadre “da seguire” l'Afro Napoli United, che in senso stretto non rientrerebbe in questo mondo: è finanziato e sponsorizzato da una cooperativa che lavora nel mondo dell'accoglienza, un mondo su cui tra l'altro chi scrive ha enormi perplessità. Ma stiamo parlando di calcio, e un progetto molto esposto sul tema dell'antirazzismo, tra l'altro con una tifoseria numerosa e politicamente schierata, attira la nostra simpatia, punto. A volte nella vita è meglio lasciare un attimo da parte la nostra rigida e un po' cupa morale di militanti e farsi guidare anche dall'istintiva simpatia, e il calcio è un ambito in cui lo si può fare senza rischiare di far troppi danni.
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