Che la passione per il calcio e l'amore per la propria squadra possano rappresentare, in mille modi, valide metafore della vita e delle infinite situazioni che essa ti mette davanti, non lo scopriamo certo oggi. Ma leggendo “E non vorrei lo sai lasciarti mai perché”, di Lobanowski 2 a.k.a. Francesco Berlingieri (autoproduzione, 2013), si ha la piacevole sensazione di ripercorrere un viaggio che parte dall'infanzia profonda e, in una sorta di romanzo di formazione volutamente a-sistematico ed episodico, si snoda lungo aspetti fondamentali di una biografia umana, quali la famiglia, la propria città, gli amici, il calcio, quest'ultimo inteso in modo totale, pervasivo.
Non è un libro sugli ultras, per quanto scritto da uno di loro. Ma, parlando apparentemente d'altro, ti fa capire profondamente come e perché lo si diventi, come e perché il bambino che passa le giornate immerso nella favola calcistica, a fantasticare nei suoi giochi pomeridiani, diventi naturalmente un ultrà, se conserva intatta quella passione così innocente e profonda allo stesso tempo. Non è neanche un libro che narra le imprese dell'Unione Sportiva Foggia, né l'ubriacatura collettiva negli anni di Zemanlandia, né i grigi campionati di serie C degli ultimi due decenni. Tutto ciò fa parte della cornice del libro, entra di soppiatto nel racconto perché non potrebbe essere altrimenti, ma non è quello il punto.
Ora parlano di lui e scrivono di lui / lo psicologo il sociologo il cretino / e parlano di lui e scrivono di lui / ma lui rimane sempre clandestino.
(Gianfranco Manfredi, Dagli appennini alle bande)
Stabilire oggi se Valerio Marchi sia stato un illuminato fa sorridere. Non ci sono patenti da assegnare a nessuno. Soprattutto a coloro che, come Valerio, non hanno mai abdicato alla scorciatoia del consenso, al culto genuflesso del pensiero unico dominante, preferendo l’impervia strada della continua ricerca della verità, del sapere, del riscatto.
Valerio Marchi è stato un illuminato. Lo è stato in virtù di uno sguardo consapevole sempre rivolto più in là dell’oltre, rivolto a superare le semplificazioni dell’ovvio, dello scontato, del remissivo. È stato un illuminato in virtù del fatto che tutta la sua opera e la sua vita, poiché di intellettuale di strada stiamo parlando, è stata caratterizzata dalla fervente volontà di imporre le esistenze di centinaia di migliaia di giovani come oggetto di studio e non solo oggetto di cronaca, il più delle volte, nera.
Ammetto: del Sankt Pauli ho una sciarpa di raso bianco. Al muro, accanto all’Ikurrina. E pure il biglietto di una trasferta mai fatta. A Francoforte sul Meno. Non posso quindi – in coscienza – sostenere la tesi di un’assoluta indifferenza “storica” nei confronti della compagine amburghese e della sua storia. Ma oggi – al netto delle occupazioni sulla Hafenstrasse, dell’epopea e del riscatto degli ultimi, degli emarginati, dei lavoratori del porto, dei punk, degli autonomi, delle jolly roger – e a margine dell’ennesima presentazione dell’ennesimo libro agiografico sull’argomento, fuori dai denti, va detto: non se ne può più! E non certo e non tanto per loro, quanto per noi. Per quel che vediamo quando decidiamo di osservare gli esterni; e per quel che riportiamo a noi, al nostro immaginario di strada e di militanza, sulla strada del ritorno.
(Flavio Pagano, Senza paura, Giunti, 2014)
Se non pretendesse di offrire una narrazione, e quindi inevitabilmente una serie di giudizi, su un fatto di cronaca così delicato e controverso come quello dell'omicidio di Ciro Esposito, Senza paura sarebbe un libro come molti altri: una storia familiare caratterizzata dalla perdita e dalla sofferenza, narrata dalla voce di un nonno reso duro e a suo modo saggio dalla vita, non privo di una spiccata tendenza moralista. Una madre che muore prematuramente, un padre scellerato e un rapporto intenso e particolare tra nonno e nipote, che segna profondamente la crescita del ragazzo. Gli ingredienti-base per un libro semplice e scorrevole, non certo un capolavoro ma neanche qualcosa su cui spendere giudizi troppo negativi, se non fosse per un approccio troppo didascalico in cui l'autore tramite la voce narrante del nonno dispensa giudizi su come sia giusto o meno comportarsi nella vita. Ma fin qui, poco male.
C’è chi dice che tifare Arsenal vada di moda… eppure non sembra. Sono passati i tempi di Nick Hornby e di Fever pitch – brutalizzato con l’inesatta traduzione “italianizzata” Febbre a 90° – un libro che è autentico capolavoro del Regno Unito post-thatcheriano, zeppo di disillusioni, birra sgasata e rumoroso tifo da stadio.
I Gunners non giocano più come una decina di anni fa, quando il loro calcio era rigorosamente champagne – anche grazie a metà della nazionale francese ingaggiata in squadra – e da troppo tempo manca una galvanizzante vittoria in Premier.
È vero, quest’anno l’Arsenal ha conquistato sia la Fa Cup, sia la Community shield (una sorta di supercoppa d’oltremanica) ma il trionfo che conta, quello in campionato, è uno sbiadito ricordo incapace di riempire, anche metaforicamente, quell’angolo di bacheca vuoto.
Un punto di vista differente sui fatti di stretta attualità sportiva e sociale.
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