
Da sempre, quando parli del calcio argentino e di cosa rappresenta questo sport per il popolo del grande paese sud-americano, non riesci a trovare una definizione chiara e completa. Il mondo del pallone a quelle latitudini non è concepito come un semplice passatempo ma come una vera e propria religione social-popolare che viene descritta perfettamente da Osvaldo Bayer, nel suo libro intitolato Futbol. Una storia sociale del calcio argentino.
In Argentina, questa forte passione per il mondo del pallone, viene messa in risalto in una città in particolare: Buenos Aires. Per le strade e i vicoli della capitale del paese, che molti non esistano a definire una delle megalopoli di quel continente visto che è abitata da 15 milioni di abitanti in totale (un terzo della popolazione complessiva), giocano ben 21 squadre professioniste nelle prime cinque divisioni del campionato calcistico nazionale.

Che il calcio e la politica siano molto meno separati di quanto si pensi è ormai uno dei topoi narrativi di questo sito, declinato un po’ in tutte le salse ma privilegiando sempre una sorta di “orizzontalità” del fenomeno.
Dai gruppi ultras che prediligono un’azione dal basso – sia essa di mutualismo, come nella stragrande maggioranza dei casi che abbiamo affrontato, o di vera e propria costituzione di brigate militari contro eserciti nemici come il caso dell’Ucraina o quello dei paesi dell’Ex Jugoslavia – fino ai magnati che hanno usato una squadra di calcio come trampolino per le proprie ambizioni: Berlusconi col Milan è stato il capostipite, ma ha avuto diversi epigoni come ad esempio l’ex presidente argentino Claudio Macrì e il Boca Juniors, ma questi sono solo due esempi nel mucchio, perché le commistioni tra calcio e politica sono innumerevoli.

Mentre il mondo del calcio assiste all’ennesima pantomima in cui il Paris Saint Germain fresco campione d’Europa subisce una multa, non per come abbia contribuito a drogare il mercato dei calciatori – a dimostrare la pressoché totale arbitrarietà e inutilità del Fair Play finanziario – ma per uno striscione della propria tifoseria che ha preso posizione in maniera chiara ed esplicita contro il genocidio che si sta perpetrando nella più totale passività della comunità internazionale, da altri sport arrivano segnali di segno opposto.
Lo scorso 24 luglio sono stati sorteggiati i gironi di qualificazione per gli Europei femminili di basket del 2027 e il gruppo A prevedeva la presenza di Lussemburgo, Bosnia Erzegovina, Israele e Irlanda. Proprio in seno a quest’ultima nazionale, che il 18 novembre dovrebbe essere ospite di quella israeliana, si è aperto un dibattito sull’opportunità o meno sull’opportunità di scendere in campo contro la selezione di uno Stato che sta portando avanti un massacro indiscriminato: la Federazione cestistica irlandese si è dichiarata allarmata per quanto sta avvenendo a Gaza e dichiara di aspettare dei chiarimenti in merito dalla FIBA; la Federazione internazionale di pallacanestro, dopo che già nel precedente match del Febbraio 2024 le giocatrici irlandesi hanno rifiutato di stringere la mano a quelle israeliane, suscitando un intenso dibattito con prese di posizione di ogni genere. Anche adesso, mentre c’è chi ripete a menadito quasi a porre un freno le sanzioni previste in caso di boicottaggio del match (80.000 di multa per il primo episodio, 100.000 per il secondo oltre che l’esclusione dalla competizione), c’è invece chi si è schierato a favore di un’eventuale presa di posizione drastica come il deputato laburista e portavoce sportivo Rob O’Donoghue che ha chiesto al governo e al Dipartimento dello Sport di sostenere l’eventuale boicottaggio e di coprire i costi della multa, dando voce a quel sentimento di empatia se non proprio fratellanza che accomuna l’Irlanda e la Palestina.

Da circa 600 giorni la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, che insieme compongono lo stato di Palestina, sono sotto attacco quotidiano da parte dell’esercito di Tel Aviv. I sionisti stanno compiendo un vero e proprio genocidio in quelle terre, contro la popolazione locale e le infrastrutture di base, per rispondere all’azione di Hamas del 7 ottobre 2023 in cui 1200 cittadini israeliani hanno perso la vita e circa 250 sono stati presi in ostaggio.
Da quella data si contano più di 50 mila morti tra la popolazione gazawi, di cui un gran numero è rappresentato da donne e bambini, ma anche la distruzione sistematica di ogni tipo di supporto per rendere la piccola lingua di terra al confine con l’Egitto praticamente invivibile per i palestinesi. Al contempo a ogni ente internazionale, che avrebbe il permesso di entrare nella Striscia per portare aiuti umanitari alla popolazione, non viene concesso il lasciapassare, lasciando persone di ogni età e genere a morire di fame fra le strade di Gaza.