Alle estati costellate di fallimenti e ripescaggi, ricorsi e tribunali, eravamo ormai tristemente abituati da tempo. Il nostro amato e odiato calcio italiano martoriato in modo quasi folkloristico da cialtroni, arraffoni, truffatori, bancarottieri. Che con la passione dei tifosi giocano come maldestri equilibristi, pronti a promettere sorti magnifiche mentre rischiano a ogni passo di cadere nel baratro, trascinando tutto con sé. E con quell’equilibrio marcio tra istituzioni, sportive e non, di vario ordine e grado, che dispensano penalizzazioni e ripescaggi con logiche e dinamiche che a noi ignari abitanti della terra non verranno mai chiarite. Si è perso il conto di quanti anni siano che, dalla Serie B in giù, i playout e i playoff si disputano come un puro esercizio di stile: partite che per loro natura sono l’emblema del pathos, che nascondono tra le loro pieghe le lacrime di folle esultanza o di irreversibile disperazione, esprimono verdetti che non arrivano quasi mai fino a settembre.
Difficile dire se sia stato il più bel Mondiale di sempre, come pure hanno dichiarato fino allo sfinimento i cronisti Mediaset, ma sicuramente Russia 2018 è stato un torneo avvincente e lo ricorderemo a lungo, sia per motivi tecnico-sportivi che di contesto. Paradossalmente proprio l'assenza dell'Italia (oltre alla trasmissione in chiaro di tutte le partite) ha consentito agli appassionati quell'imparzialità, altrimenti impossibile, per analizzare lucidamente la competizione e interpretare quello che ci ha detto. Sul campo sono crollate tante certezze che sembravano granitiche fino a poche settimane fa: alla fine ha trionfato una squadra che nonostante individualità eccezionali fa del gruppo il proprio punto di forza, hanno steccato buona parte delle stelle, qualcuna è stata ridimensionata ai limiti della derisione personale, mentre da altre ci si attendeva molto di più. Il tiki-taka ha esaurito la sua spinta innovatrice e spesso è degradato al rango di possesso sterile che prestava il fianco ai repentini capovolgimenti di fronte, quei contropiedi tanto bistrattati negli ultimi tempi. Il campo ha premiato chi verticalizzava, con effetti positivi anche sulla spettacolarità di molte partite, se pensiamo ai due ultimi Mondiali, quelli del tiki-taka trionfante e della noia quasi totalizzante, c’è da tirare un sospiro di sollievo.
Giusto il tempo di metabolizzare la suggestione collettiva di un Davide finalmente vittorioso contro Golia, che portava con sé, almeno nella visione più oltranzista, anche un portato escatologico, ed è arrivata la fine di questa stagione calcistica che non ci ha riservato nessuna particolare sorpresa: i più potenti e anche più arroganti vincono (con aiuti o meno, lo lasciamo giudicare ai moviolisti di professione), chi perde si lamenta con gli altri piuttosto che fare il mea culpa.
Anzi, al contrario questa stagione ha evidenziato per l’ennesima volta, qualora ce ne fosse ulteriormente bisogno, gli splendori e le miserie del calcio nostrano, dei suoi interpreti e dei suoi amanti e il perché, in un modo o in un altro, certi equilibri restano ancora cristallizzati e lontani dall’essere superati, basti vedere i toni apologetici di quest’ultimo weekend. D’altronde si sa, noi italiani siamo veramente bravi a santificare persone senza merito, quasi come lo siamo nelle riabilitazioni postume, ma questo è un altro discorso…
Ieri sera, durante la partita Roma-Qarabag di Champions League,in uno dei settori occupati ormai da anni da diversi ultras giallorossi, la parte alta della Curva Nord è stato esposto uno striscione con la faccia di Federico Aldrovandi.
La figura di Aldro, così, torna prepotentemente alla ribalta proprio in quell’impianto da cui tutto era cominciato. Era infatti lo scorso venerdì, 1 dicembre 2017, quando ai tifosi della Spal, giunti nella Capitale per seguire la loro squadra in trasferta contro la Roma, era stato impedito di far entrare nel settore ospiti dell’Olimpico la bandiera raffigurante la faccia di Federico Aldrovandi.
Una decisione assurda, senza un vero e proprio perché alle spalle se non quello di “ordine pubblico” che vede proprio l’impianto capitolino come il maggior laboratorio sociale per quel che riguarda la repressione nell’ambito calcistico di questo paese. Per far sentire in qualche modo la loro voce i tifosi giunti da Ferrara, numerosi e pronti a tifare con calore anche grazie allo storico ritorno in serie A, hanno deciso di rimanere in silenzio per tutta la durata della partita.