Negli scorsi giorni, più precisamente dal 13 al 20 maggio, a Tuffy, in Australia si è svolto il campionato mondiale di rafting. Ciò che ha reso questa edizione di particolare interesse per tutti coloro, noi compresi, che non hanno grande dimestichezza con questo sport è stata la partecipazione di una squadra colombiana, grazie a un invito speciale dalla International Rafting Federation (IRF), denominata “Remando por la paz”, composta da otto persone di cui ben cinque sono ex guerriglieri delle FARC, mentre gli altri tre (tra cui l’unica donna del contingente) sono contadini provenienti dal villaggio di San Vicente del Caguán, lo stesso territorio che per anni è stata la base dei guerriglieri, a cui è toccato rappresentare ufficialmente il Paese latino-americano.
Stante la crisi che attanaglia ormai irreversibilmente la Serie A, tra gestioni societarie senza un briciolo di sentimento (e spesso anche di professionalità) e la mancanza di competitività, difficilmente qualcuno tra i vari soloni che si scervellano per trovare ricette in grado di guarire il grande malato ipotizzerebbe di rivolgere lo sguardo alla Francia e alla Ligue 1.
Vuoi per la cannibalizzazione di titoli e giocatori da parte del Paris Saint-Germain degli sceicchi, superiore a quella fatta dalla Juventus sui propri competitors, vuoi per lo scarso appeal che ha da sempre avuto questo campionato, le cui vittorie in campo internazionale (appena due, quella dell’Olympique Marsiglia nel 1993 in Champions League in una finale contro il Milan, sulla quale aleggiano molto concreti gli spettri del doping, e quella in Coppa delle Coppe del PSG nel 1996) sono uno specchio abbastanza fedele del suo valore, il campionato francese risulta essere quello meno attraente tra i cinque maggiori dell’Europa Occidentale, nonostante gli “sforzi” fatti anche delle emittenti televisive nostrane che, senza grossi risultati, hanno provato a farci invaghire del calcio transalpino.
Magari non avrà la stessa importanza di quella tra Real e Atletico Madrid che negli anni passati ha assegnato ben due finali di Champions League, ma è indubbio che avere in finale una stracittadina, a maggior ragione se londinese, mantiene sempre una certa dose di fascino.
Eppure, nonostante queste premesse appetitose, la marcia di avvicinamento a quello che è già destinato a diventare inevitabilmente uno dei capitoli imprescindibili dell’infinito romanzo della lotta per la supremazia calcistica nella city, è stata scandita dalle polemiche e dai veleni.
A partire dalla sede designata per la partita, la capitale azera Baku; tanto per citare l’allenatore del Liverpool Jurgen Klopp, «andare a Baku per una finale è veramente assurdo [...]. I signori che prendono questa decisione non so cosa abbiano mangiato a colazione. C'è almeno un volo di linea? Queste decisioni vanno prese in maniera ragionevole e invece sono stati degli irresponsabili».
La Conmebol, la Confederazione sudamericana del calcio, organismo equivalente alla nostra UEFA, ha deciso di sanzionare con una multa di ben 30.000 dollari (che verranno detratti dai successivi introiti derivati dai diritti televisivi) il Deportivo Palestino.
La sanzione è stata comminata perché durante la partita di Copa Libertadores dello scorso 2 aprile giocata al Monumental contro i peruviani dell’Alianza Lima, il club avrebbe veicolato dei messaggi politici, trasgredendo così il regolamento della stessa confederazione, che proibisce di mescolare la politica al calcio, riferendosi nello specifico all’articolo 7.2 comma E in cui viene affermato che non si può “utilizzare un evento sportivo per eseguire dimostrazioni di carattere extra-sportivo” e il 13.2 comma D che punisce “l'uso di gesti, parole, oggetti o altri mezzi per trasmettere qualsiasi messaggio inadeguato ad un evento sportivo, soprattutto se si tratta di natura politica, offensivo o provocatorio”.