Sono le 11 di sabato mattina, l’aereo è arrivato presto. Nonostante la stanchezza per un viaggio di tre ore da Londra e il jet lag del fuso orario, l’emozione per vedere il Rayo Vallecano nella sua casa dell’Estadio de Vallecas tiene svegli.
La storia del Rayo comincia circa vent’anni dopo quella dei club più blasonati della città, Real Madrid e Atletico. Ma a differenza di queste due realtà calcistiche, arrivando alla stazione metro Portazgo, a un quarto d’ora dalla stazione di Atocha, ci si rende conto di come la squadra sia un tutt’uno col quartiere. Si scende dalla metro e subito si può ammirare il pannello che dà il benvenuto a Vallecas e, con tanto di foto, riporta una tempolinea con le date principali della storia del Rayo.
A dispetto dell’allarmismo a orologeria dell’Occidente, qualsiasi osservatore attento sa bene che la guerra al confine russo-ucraino non è iniziata la scorsa settimana, bensì nel 2014 con l’invasione del Donbass da parte delle truppe di Kiev, e ha già causato circa 14.000 morti e oltre un milione di sfollati, immortalati da tutto quel corollario di immagini drammatiche, ma quasi totalmente ignorate dai nostri media che nel frattempo si focalizzavano sulle proteste di Piazza Maidan restandone ammaliati.
Dopo l’ennesimo episodio di razzismo che qualche anno fa coinvolse Kalidou Koulibaly, il difensore del Napoli, in un’intervista rilasciata a L’Equipe Magazine, dichiarò che la vittoria di un trofeo in Italia o in Europa con il suo club sarebbe stata un’utile cassa di risonanza nella lotta alle discriminazioni. Seppure sia arrivata con la nazionale, la vittoria storica del Senegal in Coppa d’Africa ha aperto la riflessione su come il tema del razzismo non sia circoscritto agli stadi, ma sia piuttosto un problema endemico e culturale di una società che tende a considerare tutto quello che valica il mediterraneo subalterno al continente europeo.
Le strade di Dakar sono ancora in ostaggio dei festeggiamenti, grazie all’impresa dei “Leoni del Teranga”, capaci di alzare al cielo per la prima volta la Coppa d’Africa dopo una partita tiratissima, risolta solo alla roulette dei calci di rigore contro l’Egitto, certificando a tutti gli effetti anche il ritorno dei Faraoni tra le grandi del continente.
Merito di una grande squadra e del suo condottiero, Aliou Cissè, battistrada di una pattuglia di ben 18 tecnici africani su 25 (il Malawi si è presentato con una coppia in panchina) che se da un lato è indicativo dei progressi fatti dagli allenatori africani nel corso degli ultimi decenni; dall’altro è un parziale contraltare della diaspora calcistica (fiera riproduzione delle logiche neocolonialistiche) che depaupera il Continente nero di gran parte dei suoi talenti restituendogli - con qualche validissima eccezione - calciatori di seconda o terza fascia.