Ogni accenno ai Giochi Olimpici è un'opportunità per i propagandisti sportivi istituzionali di prostrarsi al totem del vecchio barone baffuto. Soprattutto dopo l’assegnazione delle Olimpiadi del 2024 a Parigi, ottenuta in seguito al ritiro delle sue principali rivali.
È da almeno un secolo che le generazioni sono permeate dalla retorica de “l'importante è partecipare”, che lodiamo i valori sacri dello spirito olimpico mentre ci viene imposta l'ingombrante eredità di un de Coubertin presentato come un benevolo patriarca al quale saremmo eternamente debitori; che si cerca di inculcarci in maniera edulcorata che i Giochi Olimpici sono una festa. Non lo sono mai stati.
Manca ormai poco a Tokyo 2020 (2021). Ufficialmente si parte il 23 luglio, ma tutto resta ancora sospeso: defezioni dell’ultimo minuto, infortuni e pandemia rendono grande la confusione sotto il cielo del Sol Levante.
Una cosa però è certa: la nazionale italiana maschile non avrà nessun pugile alle Olimpiadi per la prima volta in un secolo (salvo ripescaggi dell’ultimo momento). Ma non c’è da preoccuparsi perché per buona pace dei maestri che ancora storcono il naso, a rendere onore alla tradizione pugilistica italiana – vale la pena ricordare che nei giochi olimpici moderni l’Italia è la quarta potenza dopo Stati Uniti, Cuba e Gran Bretagna – ci saranno Giordana Sorrentino (51 kg), Irma Testa (57 kg), Rebecca Nicoli (64 kg) e Angela Carini (69 kg).
Diciamoci la verità, la stragrande maggioranza delle persone passate per i gradoni della curva di un campo di calcio, almeno una volta nella propria vita, si sarà ritrovata a gridare frasi ingiuriose alla tifoseria avversaria mettendone in dubbio la “virilità”, magari con leggerezza senza neanche pensarlo realmente. Del resto si tratta di un retaggio, in alcuni casi duro a morire, che vede proprio nelle curve e nei gruppi organizzati che le popolano una delle ultime roccaforti di una concezione arcaica e guerresca della vita in cui bisogna essere pronti a combattere in ogni momento ostentando virilità, senza dare segnali di debolezza. Non si tratta in questo momento di dare giudizi morali, ma di annotare certi comportamenti, tanto usuali quanto biasimabili. In fin dei conti, il dileggio del nemico con ogni mezzo necessario è sempre stato uno dei principali obiettivi: può valere tutto purché si riesca a mettere in imbarazzo l’avversario.
Il patriottismo è amare la propria gente; il nazionalismo è odiare gli altri.
Romain Gary, Educazione europea, 1945
L’Italia s’è desta
Con la partenza del campionato europeo, si innesca in automatico quel processo di canoniche abitudini di chi guarda le partite degli azzurri: scagli la prima pietra chi non ha mai aderito ai più svariati rituali fantozziani, seguendo qualsiasi tipo di beneaugurante scaramanzia.
Il tifo accantona qualsiasi nesso di razionalità, e quando nei teleschermi risuona l’inno di Mameli e a correre dietro la palla sono gli azzurri, improvvisamente sul suolo nazionale ci sentiamo simili, tutti legati in maniera indissolubile da un cordone ombelicale che per 90 minuti restituisce un riscatto morale alle difficoltà del quotidiano.