I rimorsi dei vivi sono ancora più tremendi della fine dei morti
Carlo Petrini, Nel fango del Dio pallone, Kaos edizioni, 2000
Ricostituenti
In una domenica di giugno del 1968, nello spogliatoio dello stadio di Ferrara, cinque ragazzi attendono il loro turno per l’iniezione prima della gara. La siringa che sta affondando nella bottiglietta preleva un liquido chiaro dalle striature gialle e rosse mentre gli atleti si alternano sul lettino medico e l’ago gli penetra i glutei senza mai essere cambiato.
Carlo, giovane centravanti del Genoa col fiuto del gol, quel giorno affronterà il Verona in campo neutro ed è uno tra i cinque a ricevere quelle “punture rigeneranti”.
Carlo Petrini è nato a Monticiano, un paesino di circa 1500 anime abbarbicato sulle colline toscane, dove è cresciuto correndo dietro un pallone fatto di stracci, in una casa dove l’acqua e l’energia elettrica scarseggiano.
Sebbene sia indubbiamente in corso un’operazione che tenda a svilirlo, il 25 aprile – nonostante tutto e tutti – resta una data imprescindibile della nostra storia che, fuggendo alla tentazione di un’analisi retrospettiva a base del senno del poi, ha forgiato i destini del nostro paese… ma non solo.
Infatti, a livello globale, oltre alla liberazione dal nazifascismo dell’Italia, in quella stessa data si festeggia anche un altro processo di liberazione nazionale, quello del Portogallo (e delle sue ex colonie), avvenuto nel 1974 e passato alla storia col nome di Rivoluzione dei Garofani, quando l’ala progressista delle forze armate pose fine all’“Estado Novo”, una delle dittature meno conosciute nella storia dell’Europa contemporanea, ma allo stesso tempo longeva.
Se è vero - come diceva Eduardo Galeano - che il calcio è il popolo, il potere è il calcio, non dovremmo meravigliarci davanti alla ormai presunta ex rivoluzione del football che sembra essere morta prima ancora di vedere la luce.
Tuttavia, la superlega non è che la punta dell’iceberg del capitalismo calcistico. Un torneo in cui la partecipazione verte su logiche di fatturato e in cui la discriminante è il profitto. L’ultimo step di un’apartheid che ha riunito insieme allo stesso tavolo oligarchi ed emiri che si arrogano il diritto di stabilire i parametri di adesione al banchetto degli invitati.
La notizia di una competizione sportiva, cucita su misura per i massoni del pallone, ha suscitato, in molti, rabbia e incredulità. È proprio così. L’idea che possano esistere anche nello sport figli di un Dio minore, piegati dalle logiche del vile denaro, ha fatto storcere la bocca a molti.
Non può essere di certo un fulmine a ciel sereno, chi sgrana gli occhi davanti a rivelazioni di questa portata si è accorto, forse, in ritardo che il re è nudo. Il calcio non è diventato moderno, e non lo scopriamo di certo ora, ha da sempre ricoperto un ruolo piegato all’affermazione e consolidamento del potere ed è evoluto, secondo logiche Darwiniane, mantenendo immutata l’essenza originaria della classe dominante.
Il 15 aprile Arturo “Thunder” Gatti avrebbe compiuto 49 anni. Un po’ imbolsito ma sempre con quel sorriso magnetico, lo sguardo malinconico e la faccia segnata, incarnerebbe alla perfezione il ruolo della leggenda, del vecchio campione sornione. Non disdegnerebbe ospitate tv e qualche telecronaca da bordo ring, per racimolare qualcosa e sbarcare il lunario dopo una vita di sperperi. Per sostenere famiglia e stile di vita da sempre sopra le righe, affatto pauperista, tipico di chi è nato povero e ha avuto successo. Di chi ha patito troppe privazioni e ora non può far altro che esagerare. Per riempire un vuoto. Per scacciare il passato di sofferenze. Per esorcizzare la puzza di povertà che rimane addosso. Morto di fame anche se miliardario. Per sempre paisà. Immigrato.