Se è vero - come diceva Eduardo Galeano - che il calcio è il popolo, il potere è il calcio, non dovremmo meravigliarci davanti alla ormai presunta ex rivoluzione del football che sembra essere morta prima ancora di vedere la luce.
Tuttavia, la superlega non è che la punta dell’iceberg del capitalismo calcistico. Un torneo in cui la partecipazione verte su logiche di fatturato e in cui la discriminante è il profitto. L’ultimo step di un’apartheid che ha riunito insieme allo stesso tavolo oligarchi ed emiri che si arrogano il diritto di stabilire i parametri di adesione al banchetto degli invitati.
La notizia di una competizione sportiva, cucita su misura per i massoni del pallone, ha suscitato, in molti, rabbia e incredulità. È proprio così. L’idea che possano esistere anche nello sport figli di un Dio minore, piegati dalle logiche del vile denaro, ha fatto storcere la bocca a molti.
Non può essere di certo un fulmine a ciel sereno, chi sgrana gli occhi davanti a rivelazioni di questa portata si è accorto, forse, in ritardo che il re è nudo. Il calcio non è diventato moderno, e non lo scopriamo di certo ora, ha da sempre ricoperto un ruolo piegato all’affermazione e consolidamento del potere ed è evoluto, secondo logiche Darwiniane, mantenendo immutata l’essenza originaria della classe dominante.
Il 15 aprile Arturo “Thunder” Gatti avrebbe compiuto 49 anni. Un po’ imbolsito ma sempre con quel sorriso magnetico, lo sguardo malinconico e la faccia segnata, incarnerebbe alla perfezione il ruolo della leggenda, del vecchio campione sornione. Non disdegnerebbe ospitate tv e qualche telecronaca da bordo ring, per racimolare qualcosa e sbarcare il lunario dopo una vita di sperperi. Per sostenere famiglia e stile di vita da sempre sopra le righe, affatto pauperista, tipico di chi è nato povero e ha avuto successo. Di chi ha patito troppe privazioni e ora non può far altro che esagerare. Per riempire un vuoto. Per scacciare il passato di sofferenze. Per esorcizzare la puzza di povertà che rimane addosso. Morto di fame anche se miliardario. Per sempre paisà. Immigrato.
A giugno-luglio si giocheranno gli Europei previsti nel 2020 e posticipati di un anno a causa della pandemia. È la prima edizione “itinerante” della storia degli Europei: non uno o due Paesi organizzatori, ma partite disputate in 12 diverse città. A dire il vero, la pandemia non accenna a spegnersi e sta mettendo in dubbio proprio in queste settimane anche il carattere itinerante: per l'inizio di aprile si prevede una decisione definitiva, con alcune città tra cui Londra e Berlino che premono per disputare tutta o quasi la competizione nei propri stadi.
Tra le 12 sedi individuate ce n'è una che fin da subito ha generato proteste: parliamo di Bilbao e del suo stadio San Mamés. Qui la nazionale spagnola dovrebbe giocare, salvo decisione contraria, le 3 partite del girone e l'eventuale ottavo in caso di passaggio turno. I motivi delle proteste sono facilmente intuibili per chi ha un minimo di dimestichezza con la storia dello Stato spagnolo e con i movimenti indipendentisti: Bilbao è una delle più importanti città dei Paesi Baschi, il cui popolo è stato duramente represso nei 40 anni di dittatura franchista e da circa 60 anni lotta, con ogni mezzo necessario, per l'indipendenza e il socialismo. La “roja” ha disputato nella sua storia soltanto 6 partite a Bilbao, di cui l'ultima nel 1967, in piena dittatura fascista. Abbastanza comprensibile il perché per più di 50 anni non abbiano avuto il coraggio di tornare a giocare a San Mamés.
Se avete frequentato anche solo per un breve periodo le curve, la retorica del “Combattete da ultras” rivolto ai propri giocatori non potrà esservi estranea. Tuttavia, sarà molto meno usuale vedere il contrario, cioè ultras, o comunque tifosi accaniti, che “si comportano” da calciatori. Certo, nel corso degli anni e soprattutto nell’arcipelago del calcio popolare abbiamo avuto diversi esempi virtuosi: dallo United of Manchester all’Atletico Club de Socios, fino ad arrivare anche qui in Italia, dall’Ideale Calcio Bari alla Brutium Cosenza (senza contare contesti che se non provenienti direttamente dalle curve hanno accolto diversi transfughi delle curve che a loro volta hanno influenzato la coscienza e la cultura dei propri club, da Firenze a Palermo), ma probabilmente nessuno può vantare una storia turbolenta come quella del Canelas 2010, club di un sobborgo meridionale di Oporto, che attualmente milita nella terza divisione portoghese ed è soprannominata “la squadra più cattiva del mondo”.