L'anniversario delle foibe, probabilmente il principale caso di revisionismo storico italiano, è arrivato. Il 10 febbraio di ogni anno, “grazie” alla legge 92 emanata il 30 marzo 2004 durante il II governo Berlusconi, viene difatti commemorata la “Giornata del Ricordo”. In tale occasione, citiamo il testo della legge, si vuole “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Le foibe, a livello geologico, sono delle fosse del terreno, tipiche della regione giuliano-dalmata, dove tra il 1943 e 1945 vennero gettati i corpi di varie tipologie di vittime, fino ad arrivare alle ultime fasi della guerra in cui le truppe partigiane di Josip Broz Tito vi giustiziarono degli italiani, civili e non.
Purtroppo la storia del calcio è tristemente costellata da tragedie e morti sugli spalti. Nel corso degli anni ce ne sono state davvero tante e in ogni angolo del globo, e alcune di esse sono entrate prepotentemente nella nostra memoria a trazione eurocentrica, non fosse altro per la cornice dell’evento in cui si sono verificate – e ovviamente il primo pensiero va alle vittime dell’Heysel nel 1985, o a quelle di Sheffield del 1989 – come se morire per una finale di Coppa dei Campioni o una semifinale di FA Cup valesse di più che farlo per un Sambenedettese-Matera di serie C1 (nel 1981), o che farlo nella patria del football fosse diverso che farlo in uno stadio del Ghana (ad Accra nel 2001) o del Perù (Lima 1964).
L’Italia rischia di gareggiare senza inno nazionale, senza tricolore, né squadre e medaglie alle prossime Olimpiadi di Tokyo 2020, come noto rimandate al 2021 a causa della pandemia, e di perdere i contributi, destinati alla realizzazione della 25a edizione dei Giochi Olimpici Invernali di Milano-Cortina 2026 (di cui abbiamo parlato qui). Questo lo scenario verso cui si sta rovinosamente precipitando a seguito di una ormai insanabile spaccatura in seno alle più alte cariche sportive italiane e internazionali.
Il motivo è presto detto: “una grave violazione” dell’articolo 27 della Carta Olimpica (documento ufficiale, approvato dal Comitato Olimpico Internazionale, che contiene l’insieme delle regole e delle linee guida per l’organizzazione dei Giochi Olimpici) da parte dell’Italia in materia di autonomia e indipendenza economica del CONI (art. 27: “i Comitati Olimpici Nazionali devono preservare la propria autonomia e resistere a pressioni di qualsiasi tipo, incluse quelle politiche, giuridiche, religiose o economiche”).
Sin da piccoli ci si avvicina al tifo sportivo, seguendo le orme di un padre (o di una madre, o di una figura-guida qualsiasi) appassionato, o magari perché rapiti dall’emozione di una vittoria o di una sconfitta durante i primi giochi di bambino. A Roma, come in gran parte d’Italia, ci si avvicina di solito a un unico, grande sport: il calcio ovviamente. Come una religione si sceglie più o meno autonomamente di appartenere a una squadra per un’infinità di ragioni e con miriadi di gradazioni differenti. Di solito la Roma. Meno frequentemente la Lazio. Poi qualche squadra a caso del Nord se ti piace vincere più facile.
A Roma il tifo in altri sport, lo confessiamo, è praticamente assente. Non che non si pratichino sport di squadra e individuali a vario livello. O non che non esistano società dilettantesche e professionistiche dotate di storia, prestigio e radicamento territoriale. Sarebbe peraltro impensabile non ci fossero in una metropoli come quella romana, dove l’appartenenza a un quartiere segue di poco quella a una squadra e spesso è legata proprio alla frequentazione di centri sportivi laici o ecclesiali.