Il quarto di finale di domani tra la Russia e la Croazia è senza dubbio molto interessante e pieno di spunti di riflessione. Tralasciando solo per un attimo gli aspetti meramente agonistici, quello che forse non viene debitamente tenuto in conto è l’astio che divide questi due popoli (d’altronde, prima che la mannaia della “normalizzazione preventiva” voluta da Putin calasse sul mondiale, i russi avevano indicato proprio nei croati uno dei loro principali bersagli da colpire, subito dopo gli inglesi in un’ipotetica scala gerarchica delle priorità). Il motivo è dovuto principalmente a quel sentimento di solidarietà reciproca che lega la Russia alla Serbia in nome di una comune matrice ortodossa ancora prima che (pan)slava, che ha visto varie volte nel corso dei secoli Mosca correre in aiuto di Belgrado quando questa veniva minacciata dagli Ottomani o dagli Asburgo, e anche durante la Seconda Guerra Mondiale questo legame speciale di solidarietà si manifestò in una variante comunista quando il Movimento di liberazione Jugoslavo (unico a liberarsi senza l’aiuto di un esercito alleato), passò all’azione in seguito all’invasione nazista dell’Unione Sovietica. Noi, riprendendo un articolo del portale francese “Footbalski”, decliniamo questo rapporto fraterno all’interno del mondo delle curve, aggiungendo anche un ulteriore tassello, vale a dire la Grecia, altro baluardo ortodosso dell’Europa orientale.
Anche se viene ricordata soprattutto per la vittoria dell'Inghilterra con una rete controversa nella finale e le prestazioni sontuose del portoghese Eusebio e della Corea del Nord, la Coppa del mondo del 1966 è anche l'unica boicottata da un intero continente. Piers Edwards, della BBC Focus on Africa, ci parla del perché di un boicottaggio che ha cambiato per sempre il mondo del calcio.
Il ghanese Osei Kofi era stato descritto come uno dei migliori giocatori al mondo da Gordon Banks, il leggendario portiere con cui l'Inghilterra si laureò campione del mondo in quell’edizione. Ma è molto probabile che tu non abbia mai sentito parlare di Kofi, che ha segnato quattro gol a Banks in due amichevoli. Questo perché il giocatore ghanese, che chiamavano "un’orchestra sinfonica di uomo", non è mai riuscito a mostrare le sue qualità in una Coppa del mondo.
Istintivamente in moltissimi, nel vedere il match valido per l’ultima giornata del gruppo B dei Mondiali tra Spagna e Marocco, suggestionati dal dibattito politico nostrano, ma soprattutto (per lo meno, ci auguriamo) dal dramma umanitario che si consuma senza soluzione di continuità su entrambe le sponde del Mediterraneo, avranno salutato l’impresa a metà compiuta dalla nazionale marocchina come una sorta di rivincita per Ceuta.
Nonostante se ne parli poco, questa cittadina autonoma della Spagna, che insieme all’altra enclave Melilla si trova nel continente africano, ha il triste primato di ospitare un muro di separazione (finanziato dall’UE per 30 milioni di euro) fortificato, con del filo spinato, una doppia barriera alta tre metri (ma che dovrebbe arrivare a sei coi prossimi lavori di ristrutturazione) con sensori visivi e acustici per scoraggiare le migrazioni verso la penisola iberica, e che dal 1975 viene rivendicata dal Marocco.
Anche in questa edizione dei Mondiali, la solita schiera degli "yugo-nostalgici", della quale rivendichiamo apertamente di far parte, si è dilettata a immaginare la formazione che potrebbe avere oggi la Yugoslavia, il Brasile d'Europa, se fosse ancora unita. Come quasi sempre, sarebbe tra le grandi favorite per la vittoria finale. Ma come ben sappiamo, questo è uno sterile volo di fantasia, perché la Yugoslavia si è dissolta, o meglio disintegrata in mille pezzi, con tracce di sangue che non accennano ad andarsene. Serbia e Croazia stanno partecipando, anche con formazioni di tutto rispetto. È probabile che torneremo ancora a parlarne. Per adesso vi proponiamo la traduzione di questo articolo, che racconta un processo storico che mette tanta tristezza, ma che allo stesso tempo è interessante e utile conoscere: la trasformazione da socialismo multietnico a nazionalismo sciovinista nella mentalità degli sportivi, che sono parte importante della società balcanica.