A che punto siamo arrivati è un qualcosa che abbiamo sotto gli occhi e che quotidianamente viviamo, e non è una cosa bella. Dove vogliamo andare a finire è la vera sfida del pugilato in Italia. È una domanda che andrebbe posta a svariati livelli, a partire da quello più basilare.
Il fattore che più di tutti ha creato danno alla boxe nel nostro paese in questi decenni di scellerata gestione sta infatti al livello più elementare, quello che riguarda la percezione del pugilato stesso, si voglia intendere questa percezione come un qualcosa che arriva dall’interno o dall’esterno. Perché non è forse vero che il minimo comune denominatore tra tutti i problemi che affliggono il nostro sport è che la gente dalla boxe si è allontanata?
Risulta difficile rimanere attaccati a uno sport quando quest’ultimo viene considerato elitario, esoterico. Un qualcosa che non è per tutti, una disciplina da belli e dannati verrebbe da dire, anche se l’aggettivo “bello”, mi dispiace dirlo, è forse meglio lasciarlo da parte quando si parla di boxe in Italia, ultimamente.
Lo scorso weekend, da venerdì 9 a domenica 11 giugno 2017, si è svolta presso L.O.A. Acrobax di Roma l'ottava edizione del festival “seven Antirazzista del Cinodromo”. Padroni di casa sono stati gli All Reds Rugby Roma, punto di riferimento nazionale dello sport popolare, un modo di fare sport dal basso che sta crescendo tanto negli ultimi anni con la consapevolezza che rivendicare diritti sociali, come a partire dall'accessibilità per tutti al diritto sportivo, ma anche rappresentare le lotte sociali sono dei principi e dei valori di chi ha scelto da che parte della barricata stare.
L'evento, come spiegato dagli stessi All Reds ha, sicuramente, rappresentato un passo molto importante verso la costruzione di quella rete, che oramai da tempo si va provando a costruire, capace di far dialogare tra loro le molteplici realtà che portano avanti una pratica di sport popolare di squadra. A questa edizione della competizione hanno infatti partecipato tutte le realtà di rugby popolare presenti nel panorama italiano, oltre ovviamente a tutte le realtà più tradizionali che si riconoscono però appieno nei valori dell'antirazzismo, dell'antifascismo e dell'antisessismo che caratterizzano questo torneo sin dalla prima edizione e che sono i valori fondanti, ormai saldamente riconosciuti, dello sport popolare.
Come scrivevamo qualche settimana fa, il mese di maggio è quello dei verdetti, quelli che fanno sognare e quelli che ti fanno a pezzi dal dolore. È quindi anche il tempo, praticamente ogni anno, delle contestazioni alle squadre che hanno deluso. L'ennesima occasione in cui emerge in tutta la sua chiarezza la differenza sostanziale tra lo spettatore e il tifoso (di questi ultimi, per chiarezza, chi scrive considera l'ultras una sezione, quella militante, ma accomunata dallo stesso tipo di passione). La differenza emerge in genere a partire dalla condanna che giunge unanime da parte di tv e giornali rispetto a qualsiasi forma di contestazione, fosse anche di natura pacifica, fatta dai tifosi, specialmente quando è fatta faccia a faccia. Adesso, ad amplificare il dibattito, ci sono i social.
C’è una retorica fastidiosa che in dialetto romanesco assume la forma strascicata del “volemose bene”. Una litania, fatta di pacche sulle spalle e strette di mano che tutto annacqua con un sorriso bonario, magari dopo un brindisi fragoroso. E ancora una volta, in nome di questa logica perversa, si generano mostri.
Perché secondo alcuni lo sport sarebbe un compartimento stagno della vita, in cui contraddizioni e antagonismi del vissuto, non possono entrare. Perché lo sport promuove valori umanistici, in un certo senso pre-politici.
Ma come insegna la filosofia classica, l’essere umano in fondo è un animale politico. E tutto il suo agire è regolato da questa sua natura. In un certo senso in barba al libero arbitrio.