Cosa sarebbe oggi di Katherine Dunn se nel 1980, per qualche motivo, non avesse acconsentito alla richiesta del marito che mentre usciva di casa le chiese il favore di seguire un incontro di pugilato in tv per poi raccontarglielo al suo ritorno, non è dato saperlo. È un fatto però, per sua stessa ammissione, che l’avventura dell’autrice come cronista della noble art inizia esattamente in quel momento, come raccontato non senza ironia nella prefazione del suo libro Il circo del ring. Dispacci dal mondo della boxe, pubblicato nella sua versione italiana da 66th&2nd e tradotto da Leonardo Taiuti.
Sezionando l’opera in questione, i seguaci della matematica troveranno spunti interessanti. Ci sono ventidue articoli, un’introduzione e un epilogo. Duecentosettantadue pagine. Nel campo delle suggestioni quindi questo è un libro palindromo, con echi cabalistici. Più semplicemente, però, sono trent’anni di cronache appassionate del ring in cui vagare, scritte da una delle voci più autorevoli del pugilato americano. Un condensato di grandi campioni e piccole storie pubblicate su giornali e riviste come «The Ring», «Sports Illustrated», «Vogue», «New York Times», «Esquire» «Playboy» e soprattutto «Willamette Week», che ritraggono l’arte marziale più antica del mondo, nuda e cruda, raw & uncut. Autentica e senza fronzoli.
Ci sono momenti della vita che sono come quei crinali montuosi grazie ai quali si riesce a vedere sia il percorso già fatto che quello che ci si prospetta davanti. Ed è questa l’ambientazione allegorica che riesce a tenere uniti tutti i personaggi dell’ultima (validissima) fatica letteraria di Juri Di Molfetta.
A partire da chi non compare mai direttamente nel romanzo ma il cui spirito volteggia su tutte le oltre trecentocinquanta pagine di questo piacevole romanzo: gli anni ’80, il decennio yuppie per antonomasia, che sarebbero passati sulle tensioni sociali irrisolte con aperitivi su aperitivi e che si erano appena affacciati portando in dote – tra i tanti disastri – il mondiale di Spagna che avrebbe consolidato il mito del calcio come oppio dei popoli.
Dopo la storia dello Spartak Mosca, continuiamo con le recensioni in salsa sovietica anche per questo 2021. Lo sportivo che celebriamo è nientemeno che uno dei più grandi calciatori russi di tutti i tempi, il mitico “ragno nero”, Lev Ivanovìch Jasin.
In vita mia sono sempre rifuggito dalle assolutizzazioni, cercando di smarcarmi dal tipo di frase: “tizio è stato il più forte di sempre, caio è il migliore di tutti i tempi”, mi sfuggono i parametri e i numeri (che per carità ci sono e sono consultabili) rispetto alle emozioni e ai contesti che li rendono tali.
L’unica eccezione è forse Diego Armando Maradona, coacervo di numeri e sentimenti, ma anche qui non mi sento di contestare chi ha eletto a suo Dio qualcun altro che non sia proprio lui, D10s.
Anche su Jasin non mi sento di crocifiggere qualcuno in caso non lo si consideri il più forte di sempre, ci mancherebbe, ma in questo articolo spero di riuscire a dipanare qualche dubbio sulla sua figura, aggiungendo qualche considerazione personale che aiuti la comprensione dell’unico portiere che ha vinto il pallone d’oro.
Un tuffo nel passato. Un salto indietro di 25 anni, ahimé! Semplicemente è quello che mi hanno trasmesso i racconti che Nicolò Rondinelli e Andrea Vecchio han messo nero su bianco nelle pagine del loro ultimo lavoro letterario Con il pallone tra i piedi e la musica a cannone – Racconti contro il calcio moderno, edito da Red Star Press – Hellnation Libri.
Racconti che mi hanno coinvolto sin dalle prime righe, semplicemente perché ho rivissuto quella che con i miei amici è stata la mia adolescenza e tutto quel periodo che a livello “teorico” ci ha portato all’età adulta, ma che nei fatti personalmente mi ha fatto rimanere stretto a quei momenti ed essere ancora molto adolescente dentro la testa.
Noi che aspettavamo, in ogni periodo dell’anno, l’orario per trovarci in uno dei tanti parchi del paese, nella mansarda di uno dei nostri o nei cortili dei palazzi popolari che ci ospitavano, per correre dietro a un pallone da insaccare dentro a porte improvvisate: una volta quattro alberi, una volta semplici magliette o bottigliette, dipendeva dal numero che eravamo e da che tipo di partita volevamo fare; in alternativa ci si sfidava a tedesca o 21 (così venivano chiamati dalle nostre parti), dove bastava un muro e molta immaginazione per urlare al gol.