Maryan Trimiar, detta «Lady Tyger», non è stata la prima donna a salire sul ring. E neppure la prima campionessa del mondo ufficiale nella storia della boxe. Eppure la sua carriera pugilistica ha segnato una cesura decisiva. Il suo è uno spartiacque, c’è un prima e un dopo Lady Tyger.
A raccontare la sua storia è il libro Lady Tyger. La vera storia di Marian Trimiar: la ragazza venuta dal ghetto capace di combattere contro qualunque pregiudizio e di rivoluzionare il mondo della boxe uscito per Hellnation libri e scritto da Silvia Cruz Lapeña, dove viene narrata una vicenda poco conosciuta anche alle latitudini “compagne” ma che merita di essere ascoltata, perché mette in scena la vita di una pugile, di una donna e di un’afroamericana capace di sfidare i vertici del pugilato mondiale contro pregiudizi e discriminazione.
Lady Tyger nasce nella New York degli anni Cinquanta, precisamente nel Bronx. Lì il sogno americano ha la forma di case di mattoni tutte uguali, in cui si spera in un avvenire migliore che puntualmente non arriva mai.
È un’uscita abbastanza recente quella di Le Canaglie di Angelo Carotenuto, edito da Sellerio, e certamente non è passata inosservata alla nostra redazione e ci sembrava meritoria di trovare spazio su questo blog. Un libro che parla di Lazio essenzialmente, e della città di Roma. Un romanzo che colpisce per bellezza e costruzione. Per alcuni tratti i soggetti principali, la S.S Lazio e la Roma sorniona e violenta degli anni a cavallo del 1970 vestono di contorni epici. Retrocessione, morte, armi, saluti fascisti, anni che trasudano violenza politica, vittoria, esaltazione, lazialità, esasperazione, parossismo. Tutto ciò nel libro appare centrato senza il culto e mito di biancoceleste vestito, né il livore o il sottodimensionamento di giallorosso tinteggio. La storia di quella Lazio è molto bella e profonda, da qualsiasi lato la si guardi. È emblema calcistico, è riassunto storico. Non ne vedo un’operazione per commercializzare quei fatti storici come in altri propositi letterari. È un romanzo onesto, non declaratorio ma intimo.
Negli ultimi anni abbiamo letto e recensito diversi libri sui Mondiali, ribattezzati anche della “i Mondiali della vergogna”, di Argentina ‘78, segno che il loro contesto politico, sociale e sportivo li abbia resi terribilmente ed eccezionalmente “affascinanti” agli occhi delle penne nostrane. Il bellissimo La storia balorda del Ballestracci e il sontuoso Uccidi Paul Breitner di Pisapia, giusto per citarne due, ne sono un palese esempio. Sia chiaro che di “affascinante” nell’eliminazione sistematica di qualsiasi oppositore politico e nell’istituzione di centri di detenzione e tortura, per di più a pochi passi dallo stadio (il Monumental) del trionfo argentino non c’è proprio nulla, ma solo un’infamia senza fine per una junta militare sostenuta da tutto il blocco dei paesi anticomunisti e occidentali e addirittura in parte dall’URSS, che presa alla gola da rapporti di dipendenza commerciale non si schierò apertamente contro quel regime militare e fascista che dominava il paese da almeno due anni, e si trasformò in una delle più efferate dittature sudamericane (a differenza tra l’altro di quello che fecero i sovietici pochi anni prima con Pinochet).
CAP 20100 racconta la città di Milano con gli occhi delle realtà di calcio popolare che la attraversano, anteponendo alle dinamiche del business il mutualismo e la solidarietà.
Niente bosco verticale, niente darsena, niente City Life né Corso Como, il racconto di CAP 20100 inquadra i palazzoni delle case popolari nei quartieri periferici di Milano, lì dove lontano dalle logiche del business e dai riflettori della movida si animano movimenti che vogliono creare inclusione e aggregazione anche attraverso lo sport.