La prima cosa che ho chiesto a Romano Lupi è stata se avesse mai giocato in porta.
Sì perché puoi scrivere di portieri, puoi parlane, discuterne e criticarne ma se non sei mai stato uno di loro la tua visione sarà sempre parziale e monca. L’essere portiere è uno stato emotivo-esistenziale che accomuna tutti i numeri uno. Tutti nessuno escluso.
Quando lessi la biografia di Jasin (Curletto-Lupi), la bellissima biografia ergo, mi colpirono tre momenti particolari che gli autori descrissero proprio a voler rimarcare la grandezza come portiere, l’umanità e moralità come cittadino sovietico.
Quella in cui si è cimentato l’amico Davide Ravan è un’opera documentaria che rende un servizio a tutti noi, a tutto l’ambito sempre più ampio, e di conseguenza variegato, del “calcio popolare”. Fra alcuni anni, cosa di cui magari oggi ancora non ci rendiamo pienamente conto, potrebbe esserci ancor più utile questa sorta di pietra miliare, di istantanea che ritrae lo stato dell’arte di questo movimento nell’anno 2019. Perché si tratta di una galassia di realtà in rapida evoluzione, in cui ogni anno nascono nuove formazioni e altre, fortunatamente in misura minore, incontrano delle difficoltà o cessano del tutto l’attività. Ci sono gli sviluppi diversi da territorio a territorio, così come le scelte di ognuno in termini di finanziamento, organizzazione, sponsorizzazioni. Le categorie diverse in cui le squadre giocano, che costringono quindi a traiettorie non sempre uguali, a sperimentazioni, a mediazioni tra la dimensione ideale e il misurarsi con la realtà dei fatti. E quindi mettere un punto, fare un ritratto completo del panorama in un dato momento è opera meritoria e fa del bene a tutti.
Dudley, Black Country, West Midlands. I dintorni di Birmingham, per capirci. La terra d’origine di Anthony Cartwright, e la terra che sintetizza al meglio questi tre decenni abbondanti di neoliberismo trionfante, avviato dalla signora Thatcher e innalzato nel tempo a unico modello di sviluppo possibile, stando alla narrazione ufficiale, quella di regime, comune praticamente a tutti i Paesi di quello che, almeno un tempo, si definiva “Occidente sviluppato”. E quindi quello che era un distretto minerario e industriale brulicante di ciminiere fumanti e di torme di operai che si susseguono nei turni massacranti, ma quanto meno si riconoscono un ruolo nel mondo, diventa un territorio dismesso, depresso, in cui la cenere e la polvere non si alzano più verso il cielo ma si posano sul tessuto urbano e sulla pelle delle persone, a formare una coltre fredda e grigia, che non lascia presagire nulla di buono.
Sono sincero, nonostante mi interessi di sport a tutto tondo, nel mio intimo amo gli sport di cui capisco la complessa architettura di regole e sudore ancorché riesco a immaginarne i sacrifici e le rinunce di chi lo pratica, in sintesi, nel mio caso, calcio e ciclismo.
Però magari un giorno ti ritrovi tra le mani un gran bel libro sulle vite, le fatiche, le lotte di due afroamericani di cui avevi visto la foto appesa in posti che solitamente frequenti, una foto di per sé così evocativa e ribelle. I pugni al cielo di Tommy Smith e John Carlos.
Il libro però andò al di là della foto e delle storie di razzismo imperante negli USA e mi fece conoscere uno sport su cui raramente mi ero soffermato per conoscerlo e apprezzarlo. L’atletica leggera, o meglio, la velocità. In particolare i 200 metri piani.
La continua ricerca della perfezione, l’allenamento marziale, la dedizione completa all’obiettivo. La solitudine. Di certo diverso, diversissimo da quella immagine di sport di squadra che io adoro e prediligo. Eppure la lettura di quel libro mi aveva suggestionato, un punto di vista così elettrizzante mi aveva folgorato.