Quando si parla di Jack Johnson non tutti, a meno che non si sia appassionati del mondo pugilistico, sanno chi era costui. Per capire questo atleta bisogna tornare agli Stati Uniti dei primi anni del Novecento. Un paese che si avviava verso una grande industrializzazione e che portava ancora addosso le ferite della guerra civile tra Nord e Sud. Negli Stati del Sud, gli sconfitti del conflitto, i nordisti imposero una ricostruzione che si basava sul fatto di far rispettare agli afroamericani i diritti acquisiti dopo l’abolizione della schiavitù. All’inizio fu così, ma poi col tempo i nordisti mollarono la presa e così i sudisti poterono instaurare una nuova e “velata” segregazione razziale. Una segregazione razziale che si basava sulla frase separati ma uguali. Bagni per neri, posti in autobus riservati ai neri, luoghi di ritrovo divisi per razza e il perpetuarsi di altre forme di violenza. Questa nuova segregazione era nei suoi tratti anche più subdola e feroce della precedente.
Stilisticamente per qualcuno gli anni Ottanta vestono camicette a fiori e baffi come Tom Selleck in Magnum P.I. Per alcuni completi oversize di Don Johnson in Miami Vice. Per altri ancora suonano come i sintetizzatori di Kraftwerk e Depeche Mode. Per punk e skin borchie, anfibi e jeans attillati. Per gli integralisti del libero mercato invece sono i fermacravatte yuppie di Gordon Gekko in Wall Street. Per i calciofili nostalgici gli Ottanta fanno rima con il numero 10 di Maradona. Per me, e per molti altri fanatici del pugilato, gli anni Ottanta hanno la “boccia a pelle” lucida di Marvin Hagler, il fisico scolpito, un gancio micidiale, gli occhiali da sole a goccia e un cappello con scritto WAR.
Marvin “Marvelous” Hagler compie oggi 66 anni e merita di essere ricordato per quello che è: uno dei pugili più grandi della storia. Un peso medio old school, lontano dai calcoli di interesse e dai ragionamenti di convenienza che caratterizzano i campioni odierni. Un pugile nato per combattere che non si è mai risparmiato, né si è mai lamentato – nonostante abbia subito numerosi verdetti ingiusti – e che ha fatto l’unica cosa per cui era portato. Allenarsi, salire sul quadrato, mettersi al centro del ring e boxare. Contro chiunque.
Il reggae e il calcio hanno avuto in più occasioni possibilità di contatto. Come descritto da noi stessi in alcuni precedenti articoli sono infatti numerosi gli artisti, passati e presenti, di questo genere musicale, creatosi e sviluppatosi in Giamaica a metà del XIX secolo, che hanno avuto a che fare con il mondo del pallone.
Uno degli esponenti principali delle positive vibrations, che fu anche un calciatore di un certo livello, fu niente meno che Robert “Bob” Nesta Marley. Proprio oggi cadre il 39esimo anniversario della morte di questo grande artista, denominato non a caso “il re del reggae”, scomparso l'11 maggio 1981 a Miami a soli 36 anni di età.
Il legame tra reggae e calcio ha interessato vari artisti di questo genere musicale nato nella piccola isola caraibica della Giamaica. Di recente abbiamo potuto vedere come personaggi del calibro di Bob Marley e Burning Spear si sono interessati a entrambi e in varie occasioni durante le proprie vite sono riusciti a coniugarli.
Facendo qualche ricerca ho però visto che questi due ambiti erano uniti anche nella figura di Jacob Miller. Egli, per chi non lo sapesse, è stato un altro storico esponente della musica reggae di metà XX secolo di cui proprio oggi, 23 marzo 2020, ricorre il quarantesimo anno della scomparsa.
Miller nacque il 4 maggio 1952 a Mandeville, piccolo comune facente parte della parrocchia di Manchester nella parte sud-occidentale dell'isola. Continuando nelle mie ricerche ho notato che sono molte le affinità che legano la figura di Jacob Miller a quella di Bob Marley.
Ad esempio, entrambi questi personaggi non conobbero mai i loro padri di persona. Del padre di Miller, nello specifico, non si sapevano molte notizie se non che era un cantante del luogo e si faceva chiamare Sidney Elliott.