Sorriso smagliante, sguardo sveglio e sempre vestito glamour: in poche parole Sugar Ray Robinson. Sugar Ray è stato, dopo Marvin Hagler, uno dei più grandi della categoria dei pesi medi, così grande da ispirare tecnicamente anche lo stesso Muhammad Alì. Prima di approdare in pianta stabile nella categoria di peso che lo consacrerà, Robinson aveva creato scompiglio in quattro categorie diverse: pesi piuma, leggeri e welter prima, e alla fine nei mediomassimi. La sua superiorità fu evidente: fu imbattibile come peso welter, vinse cinque volte il titolo mondiale dei pesi medi e per poco non conquistò anche quello dei mediomassimi. Proprio nella categoria dei pesi medi divenne il re assoluto e pugile simbolo, dove affrontò i migliori della categoria come Carmen Basilio, Jake LaMotta, Gene Fullmer, Carl 'Bobo' Olson, Henry Armstrong, Rocky Graziano e Kid Gavilán.
Quella di “perdente di successo” è una di quelle classiche etichette odiose che una volta che ti si appiccicano addosso non ti si tolgono più; generalmente vengono affibbiate alle persone che non scendono a compromessi e antepongono l’etica ai risultati finali da parte di quelli che si comportano in maniera opposta, evitando così di svelare la propria viltà e di interrogarsi sulla reale consistenza dei propri successi, preferendo mantenere le distanze. Difficile sopravvivervi senza cadere in quell’autoassoluzione ai limiti della “serena rassegnazione fatalista” che ti fa diventare davvero un perdente, quasi impossibile. Almeno che tu non sia Marcelo “El Loco” Bielsa.
Altissimo, dal look senza dubbio irriverente, maglia numero 33 dei Lakers e occhialoni da vista con le lenti gialle che lo hanno proiettato, insieme al suo immenso talento, nella storia della NBA come icona di stile e gioco. Questo è Kareem Abdul Jabbar. Con 38.387 punti è il primo realizzatore nella storia di questo sport, considerato come uno dei mostri sacri del basket. Classe 1947, proveniente da New York, la sua è stata una vita caratterizzata dalle grandi scosse del movimento per i diritti civili. La sua personalità fu molto influenzata dal movimento del Rinascimento Harlem. Al basket arrivò al tempo del college “Power Memorial Academy” di Harlem, dove diede sfoggio del suo immenso talento e condusse la squadra a vincere per tre anni consecutivi il campionato“New York City Catholic”. Il ragazzo era un talento portentoso: alla titanica altezza (2.18) unì una statuaria struttura fisica e una forza muscolare incredibile. Finito il liceo il giovane scelse la UCLA (University of California, Los Angeles) e nel giro di pochi anni portò l’ateneo ai vertici dello sport studentesco.
Per tutta la sua vita Smokin Joe Frazier è stato identificato come la nemesi di Muhammad Alì. Questa però è sempre stata un'immagine molto restrittiva per un grande campione come lui. Smokin Joe fu un pugile iconico, un grande personaggio fuori dal ring, che cantava il blues e scriveva poesie. Al contrario di Muhammad Alì, che era una super star sempre coi riflettori puntati addosso, Frazier tenne sempre lontana la sua vita pubblica da quella sportiva e raramente faceva sparate grosse in conferenza stampa. Per tutta la sua carriera agonistica non si inimicò mai i mass media e mai una volta aprì una polemica verso il governo statunitense. Una scelta che non dipendeva dal fatto che a Joe non importasse dei temi civili ma perché lo sport e la sua vita privata nel suo ragionamento dovevano essere due cose distinte. Su questo punto, nonostante la grande amicizia che legava i due pugili, Muhammad Alì denigrò spesso Frazier nelle conferenze stampa definendolo “lo zio Tom dei bianchi”. Eppure Joe Frazier, al contrario di Alì che proveniva da una famiglia piccolo-borghese, aveva conosciuto la povertà e la segregazione razziale del profondo Sud. Questo fu un punto che forse Joe non perdonò mai al suo amico/rivale, il non aver capito che lui non era il nero assoggettato ai bianchi come pensava lui.