Se dovessi scegliere una colonna sonora per rappresentare questa partita, sceglierei l’Estasi dell’oro del maestro Ennio Morricone. Una canzone ricca di epica per una partita che ebbe tutti i sapori dell’epicità della mitologia antica. La nazionale italiana che il ct Ferruccio Valcareggi, allenatore di lungo corso, aveva costruito era pressoché completa in ogni reparto. Una cosa che per quel mondiale dava tanta fiducia agli italiani era che in attacco c’era l’uomo simbolo del primo scudetto della storia del Cagliari: Rombo di tuono Gigi Riva. Insieme a Riva c’erano anche leggende come Tarcisio Burgnich, Enrico Albertosi, Domeneghini, Picchio De Sisti, Bonimba Boninsegna, il Golden Boy Gianni Rivera, Sandro Mazzola e Giacinto Facchetti. Proprio Rivera e Mazzola, giocatori simbolo rispettivamente uno del Milan e l’altro dell’Inter, furono quelli che vissero le polemiche più accese verso la nazionale. Per loro quello fu il mondiale della staffetta.
La storia di Jim Braddock è il classico esempio della tenacia che riesce a piegare un destino già segnato. Braddock era nato a New York il 7 giugno 1905, nel quartiere popolare di Hell’s Kitchen, neanche a farlo apposta a pochi passi dal Madison Square Garden, tempio della boxe statunitense. Braddock era figlio di quella marea irlandese che investì il continente americano nel periodo delle grandi migrazioni verso gli States. La sua era una famiglia cattolica, classico irlandese, e assai povera. Il ragazzo crebbe per strada a fantasticare di poter frequentare un giorno l'Università di Notre Dame e il suo primo sogno sportivo era quello di giocare a football. Ma l’estrema povertà della famiglia, molto numerosa, portò il ragazzo precocemente nel mondo del lavoro. Proprio in questi anni conobbe il pugilato e se ne innamorò. Così cominciò a cimentarsi nella nobile arte e durante la sua carriera dilettantistica arrivò a vincere il campionato di boxe del New Jersey. A 21 anni il giovane Braddock divenne professionista. Il ragazzo era forte e in soli tre anni arrivò ad avere uno score di tutto rispetto: 34 incontri vinti (21 per KO), 5 sconfitte e 7 pareggi.
Teofilo Stevenson è stato il simbolo della boxe cubana e di un sistema sportivo socialista. Cuba ha fatto della boxe il suo sport simbolo e più prolifico in fatto di medaglie olimpiche. La scuola pugilistica cubana, nel corso degli anni, venne riconosciuta al mondo come una delle più complete dal punto di vista tecnico e di preparazione atletica. La costruzione della boxe popolare a Cuba passò soprattutto dall’idea di abbandonare il professionismo, quindi il legame con i soldi, che rese questo sport alla portata di tutto il popolo. In questo punto era chiara la marcata influenza del blocco socialista del tempo. Un’altra caratteristica interessantissima della scuola pugilistica cubana fu il mix fatto dai maestri di pugilato che cominciarono a costruire la strada vincente di questa nazione nella nobile arte. Il mix consistette nella base introdotta dagli statunitensi fino ad arrivare alle innovazioni importate dal blocco socialista, ovvero grazie ai maestri provenienti dall’Unione Sovietica e dalla Germania dell’Est. Questi maestri arrivarono alla corte di colui che era considerato il vate del pugilato cubano: Alcides Sagarra. Sagarra seppe unire i consigli dei sovietici e tedeschi riuscendo a elaborare metodi di allenamento davvero innovativi per il tempo. Questo metodi consistevano in una preparazione atletica durissima, tramite l’utilizzo della pesistica e assimilando il tutto agli esercizi tecnici di pugilato. Così, intorno al 1964, a Cuba nacque un pugilato scientifico nel vero senso della parola. Il sistema socialista fece il resto, diede la spinta decisiva che rese questo sport un modello educativo, sportivo e sociale. I cubani che sceglievano di fare i pugili iniziavano a sette anni, ricevevano l’educazione sia sportiva che scolastica e al momento del ritiro, mentre la loro carriera agonistica era ancora attiva, venivano formati ed erano pronti per poter fare gli allenatori.
Quando si parla di Jack Johnson non tutti, a meno che non si sia appassionati del mondo pugilistico, sanno chi era costui. Per capire questo atleta bisogna tornare agli Stati Uniti dei primi anni del Novecento. Un paese che si avviava verso una grande industrializzazione e che portava ancora addosso le ferite della guerra civile tra Nord e Sud. Negli Stati del Sud, gli sconfitti del conflitto, i nordisti imposero una ricostruzione che si basava sul fatto di far rispettare agli afroamericani i diritti acquisiti dopo l’abolizione della schiavitù. All’inizio fu così, ma poi col tempo i nordisti mollarono la presa e così i sudisti poterono instaurare una nuova e “velata” segregazione razziale. Una segregazione razziale che si basava sulla frase separati ma uguali. Bagni per neri, posti in autobus riservati ai neri, luoghi di ritrovo divisi per razza e il perpetuarsi di altre forme di violenza. Questa nuova segregazione era nei suoi tratti anche più subdola e feroce della precedente.