Teofilo Stevenson è stato il simbolo della boxe cubana e di un sistema sportivo socialista. Cuba ha fatto della boxe il suo sport simbolo e più prolifico in fatto di medaglie olimpiche. La scuola pugilistica cubana, nel corso degli anni, venne riconosciuta al mondo come una delle più complete dal punto di vista tecnico e di preparazione atletica. La costruzione della boxe popolare a Cuba passò soprattutto dall’idea di abbandonare il professionismo, quindi il legame con i soldi, che rese questo sport alla portata di tutto il popolo. In questo punto era chiara la marcata influenza del blocco socialista del tempo. Un’altra caratteristica interessantissima della scuola pugilistica cubana fu il mix fatto dai maestri di pugilato che cominciarono a costruire la strada vincente di questa nazione nella nobile arte. Il mix consistette nella base introdotta dagli statunitensi fino ad arrivare alle innovazioni importate dal blocco socialista, ovvero grazie ai maestri provenienti dall’Unione Sovietica e dalla Germania dell’Est. Questi maestri arrivarono alla corte di colui che era considerato il vate del pugilato cubano: Alcides Sagarra. Sagarra seppe unire i consigli dei sovietici e tedeschi riuscendo a elaborare metodi di allenamento davvero innovativi per il tempo. Questo metodi consistevano in una preparazione atletica durissima, tramite l’utilizzo della pesistica e assimilando il tutto agli esercizi tecnici di pugilato. Così, intorno al 1964, a Cuba nacque un pugilato scientifico nel vero senso della parola. Il sistema socialista fece il resto, diede la spinta decisiva che rese questo sport un modello educativo, sportivo e sociale. I cubani che sceglievano di fare i pugili iniziavano a sette anni, ricevevano l’educazione sia sportiva che scolastica e al momento del ritiro, mentre la loro carriera agonistica era ancora attiva, venivano formati ed erano pronti per poter fare gli allenatori.
Quando si parla di Jack Johnson non tutti, a meno che non si sia appassionati del mondo pugilistico, sanno chi era costui. Per capire questo atleta bisogna tornare agli Stati Uniti dei primi anni del Novecento. Un paese che si avviava verso una grande industrializzazione e che portava ancora addosso le ferite della guerra civile tra Nord e Sud. Negli Stati del Sud, gli sconfitti del conflitto, i nordisti imposero una ricostruzione che si basava sul fatto di far rispettare agli afroamericani i diritti acquisiti dopo l’abolizione della schiavitù. All’inizio fu così, ma poi col tempo i nordisti mollarono la presa e così i sudisti poterono instaurare una nuova e “velata” segregazione razziale. Una segregazione razziale che si basava sulla frase separati ma uguali. Bagni per neri, posti in autobus riservati ai neri, luoghi di ritrovo divisi per razza e il perpetuarsi di altre forme di violenza. Questa nuova segregazione era nei suoi tratti anche più subdola e feroce della precedente.
Stilisticamente per qualcuno gli anni Ottanta vestono camicette a fiori e baffi come Tom Selleck in Magnum P.I. Per alcuni completi oversize di Don Johnson in Miami Vice. Per altri ancora suonano come i sintetizzatori di Kraftwerk e Depeche Mode. Per punk e skin borchie, anfibi e jeans attillati. Per gli integralisti del libero mercato invece sono i fermacravatte yuppie di Gordon Gekko in Wall Street. Per i calciofili nostalgici gli Ottanta fanno rima con il numero 10 di Maradona. Per me, e per molti altri fanatici del pugilato, gli anni Ottanta hanno la “boccia a pelle” lucida di Marvin Hagler, il fisico scolpito, un gancio micidiale, gli occhiali da sole a goccia e un cappello con scritto WAR.
Marvin “Marvelous” Hagler compie oggi 66 anni e merita di essere ricordato per quello che è: uno dei pugili più grandi della storia. Un peso medio old school, lontano dai calcoli di interesse e dai ragionamenti di convenienza che caratterizzano i campioni odierni. Un pugile nato per combattere che non si è mai risparmiato, né si è mai lamentato – nonostante abbia subito numerosi verdetti ingiusti – e che ha fatto l’unica cosa per cui era portato. Allenarsi, salire sul quadrato, mettersi al centro del ring e boxare. Contro chiunque.
Il reggae e il calcio hanno avuto in più occasioni possibilità di contatto. Come descritto da noi stessi in alcuni precedenti articoli sono infatti numerosi gli artisti, passati e presenti, di questo genere musicale, creatosi e sviluppatosi in Giamaica a metà del XIX secolo, che hanno avuto a che fare con il mondo del pallone.
Uno degli esponenti principali delle positive vibrations, che fu anche un calciatore di un certo livello, fu niente meno che Robert “Bob” Nesta Marley. Proprio oggi cadre il 39esimo anniversario della morte di questo grande artista, denominato non a caso “il re del reggae”, scomparso l'11 maggio 1981 a Miami a soli 36 anni di età.