Valle Aurelia è un quartiere di Roma nord-ovest, a pochi chilometri dal Vaticano e dal suo Cupolone.
Da sempre contraddistinta dalle sue fornaci, che davano da lavorare a numerosi abitanti locali e che la facevano conoscere nel resto di Roma come “Valle dell'Inferno”, la zona è, ancora oggi, una delle più popolari della Capitale.
Lo stesso aggettivo “popolare” ha contraddistinto, negli anni passati, vari ambiti del quartiere e non ha risparmiato nemmeno quello calcistico. Un esempio in questo campo può essere quello della Stella Rossa, una squadra di calcio popolare creatasi a Valle Aurelia negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale.
La Stella Rossa era la squadra del popolo dei valligiani, nominativo con cui erano chiamati gli abitanti della Valle. Una team sportivo che, a partire dal nome, portava avanti ideali politici ben precisi: quelli comunisti.
A 51 anni per qualcuno si è già sul viale del tramonto. Il cliché pretenderebbe addome voluminoso, rughe, abbigliamento giovanile e rimpianti.
Persino gli sportivi più longevi a quell’età diventano, nella migliore delle ipotesi, vecchie glorie da esibire come contorno a qualche evento sportivo in cui si ricordano i bei tempi andati e si celebrano gli eroi del passato, con tanto di pubblico intento in applausi rituali dal sapore nostalgico.
Eppure c’è un pugile che nella notte fra sabato e domenica 17-18 dicembre ha scritto un’indelebile pagina di storia della boxe. Senza volersi rassegnarsi al tempo che passa. E nonostante la dura sconfitta subita sul ring.
Non avendo molta dimestichezza col mondo del football americano, non ci è dato sapere se durante l'esecuzione dell'inno statunitense (usanza che oltreoceano introduce tutti gli eventi sportivi), prima del match di pre-season tra i San Francisco 49ers e i Green Bay Packers, Colin Kaepernick, quarterback dei 49ers fosse consapevole che non alzandosi insieme ai compagni per cantarlo in segno di solidarietà nei confronti della gente di colore e delle brutalità quotidiane che essa subisce dalla polizia, non solo avrebbe sollevato un vespaio di polemiche, ma avrebbe anche risvegliato dal suo torpore dorato il mondo dello sport professionistico americano.
Nel decennale della scomparsa di Valerio Marchi, a fronte delle innumerevoli iniziative a lui dedicate e, soprattutto, alla stretta attualità del suo lavoro, si può davvero parlare di una «scomparsa» del grande «sociologo di strada» romano?
Polignano a Mare, 22 luglio 2006. Sono passati dieci anni da quel giorno. Quando, dal comune pugliese, la notizia iniziò a girare tra quel pugno di amici più intimi per allargarsi ai tanti che lo avevano conosciuto e, quindi, a quelli, ancora più numerosi, che lo avevano letto o sentito parlare.«È morto Valerio», diceva quella voce maledetta. E si riferiva a Valerio Marchi, l’autore di«Teppa», il sociologo che aveva curato la pubblicazione di«Ultrà», il libraio che aveva aperto e gestito per anni la«Libreria Internazionale» a San Lorenzo, il grande tifoso della Roma, il vecchio skin esperto di ska e di punk, il compagno antifascista, l’autonomo che aveva saputo cogliere e vivere in prima linea la sete di rivolta che albergava negli stadi e che, agli stadi e ai tifosi, era tornato a rivolgersi in un passo della sua famosa«Lettera agli ultrà», per ricordare come«dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».