Quando nel lontano 1976 nei cinema di tutto il mondo fece la sua comparsa il primo film della saga di Rocky, sceneggiato da Stallone e diretto da Avildsen, sembrava la classica storia stereotipata di uno che proveniva dai bassifondi e riusciva a trovare la sua notorietà nel mondo sportivo americano. In realtà dietro a questo film ci fu una costruzione molto accurata che si ispirava alla vita di un pugile realmente vissuto e che ebbe anche la lui la sua opportunità nella vita: Chuck Wepner. Wepner fu un pugile modesto con uno score normalissimo, che non aveva mai avuto il guizzo per il salto di qualità verso il titolo mondiale. Don King, allora giovanissimo manager e promoter di eventi pugilistici con alle spalle l’organizzazione del The Rumble In The Jungle notò questo coriaceo pugile pensando che fosse l’avversario giusto da mandare contro Muhammad Alì.
Sorriso smagliante, sguardo sveglio e sempre vestito glamour: in poche parole Sugar Ray Robinson. Sugar Ray è stato, dopo Marvin Hagler, uno dei più grandi della categoria dei pesi medi, così grande da ispirare tecnicamente anche lo stesso Muhammad Alì. Prima di approdare in pianta stabile nella categoria di peso che lo consacrerà, Robinson aveva creato scompiglio in quattro categorie diverse: pesi piuma, leggeri e welter prima, e alla fine nei mediomassimi. La sua superiorità fu evidente: fu imbattibile come peso welter, vinse cinque volte il titolo mondiale dei pesi medi e per poco non conquistò anche quello dei mediomassimi. Proprio nella categoria dei pesi medi divenne il re assoluto e pugile simbolo, dove affrontò i migliori della categoria come Carmen Basilio, Jake LaMotta, Gene Fullmer, Carl 'Bobo' Olson, Henry Armstrong, Rocky Graziano e Kid Gavilán.
Quella di “perdente di successo” è una di quelle classiche etichette odiose che una volta che ti si appiccicano addosso non ti si tolgono più; generalmente vengono affibbiate alle persone che non scendono a compromessi e antepongono l’etica ai risultati finali da parte di quelli che si comportano in maniera opposta, evitando così di svelare la propria viltà e di interrogarsi sulla reale consistenza dei propri successi, preferendo mantenere le distanze. Difficile sopravvivervi senza cadere in quell’autoassoluzione ai limiti della “serena rassegnazione fatalista” che ti fa diventare davvero un perdente, quasi impossibile. Almeno che tu non sia Marcelo “El Loco” Bielsa.
Altissimo, dal look senza dubbio irriverente, maglia numero 33 dei Lakers e occhialoni da vista con le lenti gialle che lo hanno proiettato, insieme al suo immenso talento, nella storia della NBA come icona di stile e gioco. Questo è Kareem Abdul Jabbar. Con 38.387 punti è il primo realizzatore nella storia di questo sport, considerato come uno dei mostri sacri del basket. Classe 1947, proveniente da New York, la sua è stata una vita caratterizzata dalle grandi scosse del movimento per i diritti civili. La sua personalità fu molto influenzata dal movimento del Rinascimento Harlem. Al basket arrivò al tempo del college “Power Memorial Academy” di Harlem, dove diede sfoggio del suo immenso talento e condusse la squadra a vincere per tre anni consecutivi il campionato“New York City Catholic”. Il ragazzo era un talento portentoso: alla titanica altezza (2.18) unì una statuaria struttura fisica e una forza muscolare incredibile. Finito il liceo il giovane scelse la UCLA (University of California, Los Angeles) e nel giro di pochi anni portò l’ateneo ai vertici dello sport studentesco.