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Non è scritto da nessuna parte è vero, ma sicuramente uno dei lasciti più significativi di una squadra per poter dire di aver fatto epoca deriva anche da quanti suoi calciatori, una volta attaccati gli scarpini al chiodo, intraprendano la carriera da allenatore, possibilmente di successo.
Il Milan berlusconiano, soprattutto nel primo decennio, ha davvero rivoluzionato il concetto di calcio e infatti a distanza di anni diversi dei suoi maggiori interpreti sono diventati allenatori di successo capaci di alzare la Champions League, come Ancelotti e Rijkaard, altri hanno allenato nazionali di primo piano come Donadoni e Van Basten, e diversi altri che magari non hanno avuto degli acuti significativi nella loro seconda vita (come Gullit) o che si sono destreggiati nei settori giovanili come Evani e Franco Baresi.
L’agguato a cui qualche giorno fa è scampato Deniz Naki in Germania non è che l’ultima dimostrazione, in ordine temporale, di quanto il calcio in Turchia sia espressione degli equilibri di potere, anzi parafrasando Can Öz, direttore di uno dei gruppi editoriali più importanti del paese, “tutto è politica nel calcio in Turchia”, molto più di quanto si possa immaginare. Da diverso tempo in fin dei conti il rilancio e la legittimazione internazionale che cerca Erdogan (che, oltre a essere molto tifoso del Kasimpasa, team di prima divisione, tra l’altro, vanta anche un passato da calciatore semi professionista), basti pensare alla quantità, se non esattamente di stelle, di giocatori stranieri di livello medio alto che sono arrivate nel campionato turco, che se da un lato ha innalzato il livello del campionato turco, la SüperLig, (attualmente decimo nel ranking dei campionati europei), dall’altro, in concomitanza coi risultati non eccezionali della nazionale, ha creato dei malumori per via dei giovani talenti turchi trascurati dalle grandi squadre e per un buco debitorio per i principali club che ammonta a circa 850 milioni di debiti, a dispetto di una tassazione favorevole.
Il 24 marzo 1976 in Argentina avveniva un colpo di stato militare che metteva fine al breve governo guidato da Isabel Martinez de Peron. Al potere salì la giunta militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla Redondo che rimase al potere fino al 1983.
Cominciarono così 7 lunghi e tragici anni per il paese sudamericano che, come il suo vicino Cile caduto sotto il controllo del generale Augusto Pinochet, scoprì, solamente molti anni dopo, la tragica storia dei “desaparecidos”. Questo è il termine usato per descrivere tutte quelle persone, in totale furono circa trenta mila, che, sotto molti punti di vista, si opponevano al regime militare e che sparirono letteralmente nel nulla senza lasciare traccia di sé.
Oggigiorno l'appartenenza politica non ha contagiato solamente gli spalti degli stadi italiani ma anche i rettangoli da gioco. Sono numerosi, infatti, gli episodi “militanti” che in Italia, ma non solo, vedono come protagonisti i giocatori che, secondo una tradizione popolare, dovrebbero essere dei “maestri di vita” per chi va a vederli ogni domenica allo stadio.
Dall'ultimo caso, in ordine cronologico, del tesserato del 65 Futa, che a metà novembre ha esultato facendo il saluto romano ed esibendo una maglietta con l'aquila romana della Repubblica Sociale Italiana durante la partita col Marzabotto, fino ai numerosi saluti romani di Paolo Di Canio per incitare i tifosi della Lazio, risultano essere sempre più frequenti gli eventi in cui il neofascismo ha potuto mettersi in bella mostra grazie agli infami gesti di questi individui. Dall'altra sponda della barricata anche l'antifascismo ha avuto alcuni calciatori che non hanno avuto nessun problema a mettere chiaramente in luce i loro ideali politici: Cristiano Lucarelli e Riccardo Zampagna giusto per citare due nomi famosi.