Ventisei anni fa, dopo un’edizione abbastanza controversa del Festival di Sanremo (i più attempati ricorderanno le accuse di “plagio” al vincitore Ron), saliva sull’altare della celebrità quello che possiamo definire l’inno profano di questo paese, La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese.
A distanza di tutto questo tempo sono cambiate tantissime cose, ma non tutte: grazie anche a un’informazione “dopata” l’Italia si ferma ancora quando inizia il Festival e questo rappresenta ancora escatologicamente la cartina tornasole del sentimento nazionalpopolare dividendo la critica a prescindere; pazienza se ormai si tratta di uno spettacolo a metà strada tra un varietà e una finalissima unificata dei vari talent-show.
È stata una delle notizie di “mercato” dell'estate, di un'estate in cui peraltro i trasferimenti eccellenti non sono certo mancati. Ma a livello di eco mediatica, nazionale e internazionale, l'approdo di Borja Valero al Centro Storico Lebowski non è stato da meno rispetto ad altri affari conditi da cifre a molteplici zeri, lacrime di coccodrillo e polemiche varie.
Una prima riflessione si affaccia quindi spontanea: ce n'era davvero bisogno, un bisogno diffuso tra le masse di persone appassionate di calcio e anche nel mondo massmediatico, che evidentemente è ormai alla ricerca disperata di storie “belle”, o “diverse”, da raccontare, in un mondo sempre più prevedibile e plastificato. La reazione di stampa, tv, social e quant'altro infatti è stata davvero sorprendente: in casa grigionera ci si aspettava un'ondata di attenzione forte, ma non così tanto.
Chi scrive porta nel cuore squadre lontane anni luce dalla Superlega, e per le quali nella storia, quando hanno incontrato le tre “strisciate” del Nord, è sempre stato un recitare il ruolo di Davide contro Golia; pertanto pensiamo di avere la giusta dose di lucidità e coinvolgimento per ragionare su questa vicenda senza farsi assalire dalla partigianeria o peggio ancora da malsane suggestioni fingendosi caduti dal pero.
D’altronde è da almeno 2500 anni, dalla famosa “serrata del patriziato” della repubblica romana, che ciclicamente assistiamo a prove di forza da parte dei ceti abbienti per preservare i propri privilegi; dalla Serenissima all’Inghilterra della Magna charta libertatum, gli esempi nella storia abbondano, ed essendo il calcio una rappresentazione plastica della realtà sociale, era solo questione di tempo che i club più ricchi alzassero ulteriormente l’asticella. Anzi, paradossalmente vedendola dalla prospettiva di questi club, il discorso potrebbe anche filare, ma come cantava De André (fortunatamente) al loro posto non ci sappiamo stare.
Alla fine, con un paese quasi interamente in zona rossa e una campagna vaccinale in cui al momento sono maggiori i punti interrogativi rispetto ai successi, si è deciso che il campionato di Eccellenza ripartirà. Perché di interesse nazionale, in quanto le squadre da essa promosse andranno a sostituire le retrocesse dalla serie D, che si sta disputando “regolarmente”, anche se minata da rinvii dovuti ai contagi che falsano in modo pesante l'andamento dei vari gironi, e ovviamente a porte chiuse, cosa che nel calcio dilettantistico è ancora più surreale in quanto non c'è nemmeno un pubblico televisivo (ok, c'è il diritto per le società di trasmettere dalle proprie pagine social, ma insomma poco cambia), e quindi non si capisce davvero “per chi” si giochi. Ma tant'è.